L'OPERETTA AL CASTELLO DI SAN GIUSTO NEGLI ANNI DI VOLA COLOMBA: con un contributo su Mario Bugamelli di Fernanda Selvaggio
Direttore d’orchestra di carriera internazionale, nato a Castrovillari, in provincia di Cosenza, nel 1897, e morto a Trieste, nel 1980, fu Giuseppe Antonicelli a introdurre l’operetta nella programmazione estiva del Teatro Verdi al Castello di San Giusto. Rientrato nel capoluogo giuliano dopo il periodo di amministrazione anglo-americana in cui si era dedicato all’attività direttoriale nel Regno Unito, in Messico e, soprattutto, negli Stati Uniti, dove per un triennio diresse numerosi spettacoli al vecchio Metropolitan, prese le redini di un teatro in cui era stato Direttore artistico dal 1937 al 1945. Nel periodo della cosiddetta amministrazione alleata il Verdi aveva goduto, e con lui il Sovrintendente Cesare Barison, di contributi economici straordinari.
Da buon meridionale trapiantato al Nord, Antonicelli non si perse d’animo e costruì stagioni in cui, senza sacrificare il grande repertorio tradizionale, fece conoscere anche a Trieste un nuovo repertorio novecentesco.
Le stagioni invernali aprirono le porte a Dallapiccola, Berg. Stravinskij, Busoni, Prokofieff e Poulenc. Quelle estive affiancarono alla grande, la piccola lirica.
Nel 1950 affidò a Cesare Gallino le cure di due capisaldi del repertorio dell’operetta danubiana in versione italiana: La Vedova allegra di Léhar e Al Cavallino bianco di Benatzky e Stolz, le coreografie erano curate da Gisa Geert, mentre la coppia canora era formata da due artisti dai nomi esotici, che profumavano d’operetta, Marika Magiary e Pablo Civil.
L’anno successivo fece il suo ingresso a San Giusto il classico Pipistrello di Johann Strauss, l’unica operetta cui è attribuita dignità d’opera vera e propria. Per l’occasione fu chiamato da Vienna un Maestro dal nome illustre, Rudolf Moralt e Cesare Gallino, che aveva creato un piccolo Paese dell’operetta in terra triestina, dovette accontentarsi de Il Conte di Lussemburgo di Franz Léhar. Il giovane Gino Landi fu chiamato ad aiutare Gisa Geert per le coreografie mentre, come comico d’operetta, debuttò a San Giusto il mitico Elvio Calderoni.
Il tenore catalano Civil cambiò partner, e fu la fascinosa Lidia Stix, - la prima Lulu italiana alla Fenice, - a fare il suo esordio in operetta al Castello di San Giusto. Anna Campori, anche lei poco più che debuttante, era la soubrette della compagnia e portava al repertorio viennese tutta la sua verve napoletana.
Anche nel 1952 le operette in cartellone a San Giusto furono due, Vittoria e il suo Ussaro di Paul Abraham, musicista ebreo trapiantato in America, e la replica de La Vedova allegra del sempre amato Léhar in cui debuttava a San Giusto l’indimenticabile Tatiana Menotti, nata e cresciuta artisticamente a Trieste e poi cittadina del mondo. La soubrette della compagnia era una celebrità d’oltre Oceano, Rosy Barsony, talento e versatilità fatte persona. I personaggi maschili ritrovarono in Pablo Civil, in Calderoni e in un artista di casa come Mario Carlin indimenticabile tenore di carattere, i loro interpreti.
Le difficoltà economiche del Teatro Verdi suggerirono ad Antonicelli di sospendere, nei due anni successivi, l’appendice operettistica alla stagione lirica estiva del Castello di San Giusto.
Nel 1956, però, l’operetta tornò a San Giusto con tre titoli, due novità Madama di Tebe di Lombardo e Ranzato, e La Contessa Maritza di Imre (o Emmerich nella versione viennese) Kalman, e una ripresa di Ballo al Savoy con Rosy Barsony. Cesare Gallino era il coordinatore di tutte le esecuzioni.
Nel 1956 il cartellone estivo del Teatro Verdi comprendeva due soli titoli d’opera e ben quattro d’operetta, con tre rarità quali La città rosa di Lombardo-Ranzato, Lo Zarevich di Léhar e La maschera azzurra di Fred Raymond a fare da valletti alla classica ripresa de La Vedova allegra.
All’edizione successiva del Festival risale la prima collaborazione con la rassegna triestina del regista Vito Molinari che, in un’intervista degli anni Settanta, ricorda così l’esperiena di Al Cavallino Bianco che con Frasquita di Léhar era in programma al Castello di S. Giusto.
"A un certo punto, da dietro le quinte si sentì un gran rumore provenire dall’esterno, andai a vedere che cosa era successo.
Con mio grande stupore scoprii che il fracasso era stato causato da tutto il pubblico presente nel Cortile delle Milizie scattato in piedi a battere le mani a tempo, nel momento in cui in base alla trama era entrato in scena l’imperatore Francesco Giuseppe in persona mentre l’orchestra intonava la famosa Radetzky Marsch."-
Erano passati solo tre anni dal Memorandum di Londra e dalla cosiddetta seconda redenzione di Trieste, con il ritorno dell’Italia il 26 ottobre 1954, "e già riaffiorava tra il pubblico la nostalgia dell’Impero Austro-Ungarico. Anche queste contraddizioni fanno parte dell’essenza di Trieste" osserva il commentatore di Konrad.
L’anno successivo, e siamo al 1958, le operette in programma furono tre, si riprese Frasquita, ma senza la coppia lirica formata da Antonio Annaloro e Luciana Serafini – prima Madame Lidoine al Verdi nei Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc e preferita dall’autore alla Gencer del battesimo scaligero, - alternandola a La casta Susanna di Jean Gilbert e La Duchessa di Chicago di Kalman in cui si ripresentò a Trieste la beniamina Rosy Barsony. Il Pipistrello, quarto titolo in cartellone, fu ripreso anche nel 1960.
L’estate del 1962 portò aria di novità con l’ingresso sul palcoscenico del Cortile delle Milizie di La casa delle tre ragazze di Berté su musiche si Franz Schubert e Acqua cheta del compositore elbano Giuseppe Pietri, seguite dallo show Lisbona di notte.
Cesare Gallino cedette il ruolo di coordinatore musicale del comparto operettistico alla stravagante figura artistica di Mario Bugamelli che nelle precedenti edizioni si era alternato a lui. Negli anni successivi e fino a tutto il 1968 il Festival a San Giusto non si fece più e l'operetta in cartellone al Cortile delle Milizie arrivava da Budapest o da Bucarest per non perdere - si disse - la tradizione che il comico Elvio Calderoni portò avanti con la sua compagnia di cui era Primadonna Aurora Banfi, sua compagna in scena e nella vita e presenza costante del Festival al Politeama Rossetti fra il 1970 e il 1983.
Bugamelli era nato a Karkhov nell’odierna Ucraina da genitori bolognesi, trapiantato quattordicenne a Trieste, con la famiglia, formata tutta da musicisti, padre, Federico Bugamelli, direttore d’orchestra, madre, Amelia Greco, soprano mancato, e sorella, Teresita Bugamelli che fu soprano di breve ma brillante carriera.
Mario che era fratellastro della mia nonna paterna fu l’artefice della mia passione per la musica, e per quella operistica in particolar modo. Fu personaggio dai talenti eclettici in grado di spaziare dalla composizione, alla direzione d’orchestra (l’operetta non gli fu affidata solo a Trieste, ma spesso anche a Palermo e al San Carlo di Napoli), giù fino alla presenza in orchestra come percussionista, come nella mia prima Turandot, in cui seduti nel palco sopra le sue percussioni, con mia madre e il mio fratello più piccolo, fummo assordati dalla sua esuberanza e non vedemmo che in piccola parte l’apparizione della bella Lucilla Udovich nei panni della principessa di gelo.
A parte questi ricordi familiari, chi era Mario Bugamelli? Lasciamo rispondere chi, più autorevolmente di me, lo può fare, e parliamo del mai troppo rimpianto Massimo Mila venuto a Trieste per assistere alla prima rappresentazione di Una domenica su testo di Giulio Viozzi.
“Nato nel 1905 e residente a Trieste dal 1920, Mario Bugamelli è un personaggio straordinario. Se fosse un grande, avrebbe i numeri per affermarsi come il Carlo Emilio Gadda della musica. E’ un solitario che insegna lettura della partitura ed esercitazioni corali al Conservatorio, suona gli strumenti a percussioni nell’orchestra del Verdi e compone montagne di musica, prevalentemente sinfonica, dove l’accesa ricchezza straussiana è venata da uno strano colorito orientale e barbarico. Ma questa musica gli amici devono andare a ripescargliela sotto il letto, nei cassetti del comodino, in cucina, perché lui, dopo averla scritta, non se ne cura più. Naturalmente il suo nome non ha fatto molta strada. Per questo orso brontolone e pessimista, Viozzi ha scritto il libretto della sua prima opera, un libretto dalle apparenze farsesche, ma in fondo malinconico, sulle speranze di Una domenica d’una famiglia borghese che s’illude d’aver fatto una grande vincita al Totocalcio. Si aggiunga che all’opera non ci crede, ed essendo la prima volta che ci si prova, inevitabile che si riscontrino qua e là intemperanze, stasi e sproporzioni. Mentre lo stile vocale si tiene su per giù al declamato secco e puntiglioso, si ammira il suono di un’orchestra sostanziosa, sobria ed etouffé.”.
Senza troppo addentrarci nelle analisi delle sue due opere per il teatro, la citata Una domenica e la successiva La Fontana, anch’essa in un atto, su testo di Mario Nordio ispirato al racconto di Dino Buzzati Non aspettavano altro, ricordiamo qui lo scanzonato personaggio che amava gli scherzi e l’operetta. Dopo aver assolto l’incarico al Castello di San Giusto negli anni Cinquanta e Sessanta, fu richiamato da Fulvio Gilleri per dirigere, nel primo Festival dell’Operetta al Politeama Rossetti Fiore di Haway di Paul Abraham, che fu anche la prima operetta in cui Daniela Mazzucato si cimentò in un genere di cui in breve tempo divenne regina.
Del personaggio Bugamelli, però, Daniela non ricorda molto, lasciamo allora a Fernanda Selvaggio, storico primo violino di spalla dell’Orchestra del Teatro Verdi, che fu sua allieva, il compito di ricordarlo: “Bugamelli era il nostro insegnante di coro, corso obbligatorio per tutti e che io amavo frequentare.
Il reparto soprani era composto solo da allieve di canto più io che ero la preferita di Bugamelli che era severissimo con loro e diceva lasciate cantare lei che canta come un violino...
E al saggio finale erano dolori perché io ero la spalla dell'orchestra e quindi non potevo essere nel coro. Bugamelli adorava me e mio fratello e dopo le recite di operetta ci portava a cena, - era divertentissimo ! - e ci faceva fare l'alba raccontandoci aneddoti esilaranti sui suoi proverbiali scherzi in Teatro, nella cui orchestra lui suonava la celesta!
Ho il rimorso e il rimpianto di non aver mai trovato il tempo per mettere in repertorio le sue due sonate per violino che mi aveva dedicato.
Ricordo le sue mani sul pianoforte, mai visto nulla di più bello ed elegante in contrasto con la rudezza che si imponeva anche con qualche imprecazione. Bei tempi davvero! Sugli scherzi di Bugamelli in orchestra e in palcoscenico al Verdi si dovrebbe scrivere un libriccino, sarebbe una lettura divertente e molto significativa del modo di lavorare di quel periodo. Ricordo che la spalla era il mio Maestro Gianni Pavovich, un gentleman di altri tempi, sempre profumatissimo col suo papillon ma severissimo e intransigente sul lavoro che esercitava come una missione. Non so immaginare come poteva reagire a queste trasgressioni!
Pavovich, a soli ventitré anni, fu la "spalla" di Toscanini nella famosa tournée in America.
In aula aveva affisso delle foto , una delle quali era la lettera di Toscanini e la medaglia d'onore. Che personaggi!". Grazie Fernanda, ricordi preziosi: è proprio vero, Mario Bugamelli non aveva bisogno di troppa preparazione per dirigere un’operetta. Era lui stesso un personaggio d’operetta!
10/09/2023 di Rino Alessi
Info e Foto:
https://www.vitomolinari.it/prosa-e-operette/142/frasquita.html
https://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2022/05/02/news/claudio-abbado-nel-golfo-mistico-di-trieste-il-doppio-debutto-del-direttore-d-orchestra-1.41412903 bellauna vitaallopera.blogspot.com








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