A PROPOSITO DI MACBETH, LA PIU' SPERIMENTALE FRA LE OPERE DI GIUSEPPE VERDI
Decimo titolo del suo vasto catalogo operistico, Macbeth è la prima delle tre opere che Giuseppe Verdi desume da un dramma di William Shakespeare per farne un lavoro che certamente ha molti legami con l’originale, ma lo trascende e diventa, drammaturgicamente, un’opera teatrale a se stante. Siamo nei cosiddetti “anni di galera”, quelli del lavoro indefesso e disperato alla ricerca di nuovi impresari e nuove scritture, e il giovane musicista di Busseto dopo aver trionfato nei grandi teatri italiani, la Scala, la Fenice, il San Carlo, l’Argentina di Roma, va alla conquista dell’Europa.
Parigi gli chiede una novità in francese, ma il Maestro nicchia; è più propenso ad approdare nella Ville Lumière - dove regna Rossini - al Théâtre des Italiens.
Londra lo invita, per il tramite dell’editore Lucca con cui si è impegnato per un titolo, a farsi conoscere dall’elegante pubblico britannico. E dal Lumely Theatre gli fanno sapere che il principe consorte, siamo negli anni della regina Vittoria, sarebbe pronto a nominarlo “correggitore della musica reale”, ossia Cavaliere del Regno con una cospicua e regolare entrata di cassa.
L’Attila, rappresentato a Venezia nel marzo del 1846 con successo, sta facendo il giro dei teatri della Penisola. A Firenze è accolta con favore forse ancora maggiore che a Venezia, e lo stesso accade a Ferrara, a Reggio Emilia, a Livorno, a Rovigo, a Vicenza, a Trieste.
Il superlavoro di quel periodo mette Verdi al tappeto: improvvisamente lui, sano e laborioso, una vera roccia, si ritrova a dover curare dei fastidiosi malanni gastrointestinali e per farlo va a “passare le acque” a Recoaro in compagnia di Andrea Maffei, legato ai coniugi Lucca che l’hanno messo a disposizione di Verdi per il libretto della sua seconda opera tratta da Schiller, I Masnadieri.
Gli ozi di Recoaro e la noia di quel periodo furono propizi alle letture shakespeariane. Il drammaturgo di Stratford-upon-Avon del resto è da sempre uno degli autori che più affascinano Verdi che, da qualche tempo, coltiva il sogno di musicare Re Lear.
Mentre rifugge dalle proposte di Parigi e Londra, e tiene a distanza Napoli insoddisfatta della debole Alzira, con cui si è presentato al San Carlo, Verdi prende in considerazione la proposta di una novità per Firenze.
C’è una sola condizione, l’impresario non può permettersi un tenore di cartello. Questo esclude, a priori, l’idea di rappresentarvi I Masnadieri il cui protagonista maschile non può che essere tenore, e mette in lizza come soggetto Macbeth, quarto tra i titoli shakespeariani di predilezione dopo Re Lear, Amleto e La Tempesta.
A questo punto, e siamo sempre nel 1846, rimandati I Masnadieri che nel 1847 l’Her Majesty’s Theatre terrà a battesimo, accantonata l’idea di mettere in musica il dramma di Grillparzer L’avola (Die Ahnfrau) che Maffei aveva tradotto in italiano, la scelta cadde su Macbeth.
Felice Varesi, era il primo baritono al Teatro della Pergola di Firenze, ed era un signor cantante, e sarebbe stato Macbeth, Marianna Barbieri Nini nota per la sua scarsa avvenenza era l’ideale Lady Macbeth.
Macbeth su libretto del fidato Francesco Maria Piave con varianti del Maffei è opera che, drammaturgicamente, ha una consistenza tutta particolare e non teme il confronto con Shakespeare.
Si scosta dall’originale: per esempio nello spazio inusitato che è riservato alla figura femminile principale, la diabolica Lady Macbeth che – sono le esigenze richieste alla prima interprete dall’autore – deve avere una voce se non brutta, aspra, soffocata, cupa, capace cioè di descrivere le bassezze morali del personaggio.
Al tenore, Macduff è affidata solo un’aria con coro, la celeberrima “Ah, la paterna mano”, Banco, primo basso, ha una breve apparizione iniziale e poi si trasforma in uno spettro, temibile ma muto, mentre Macbeth, il baritono protagonista, è da Verdi meno caratterizzato e meno gratificato di arie rispetto alla diabolica sposa. Si esprime non con l’agilità di forza della consorte, ma in uno stile a metà fra il canto legato e il recitativo declamato che ha il suo momento più alto nella celebre “Pietà, rispetto, amore” dell’ultimo atto.
Se in Shakespeare l’attenzione dell’autore è sulle questioni politiche o, in seconda istanza, religiose del Regno di Scozia che coinvolgono Macbeth e la sua sposa, e lei, Lady Macbeth, non è che un elemento dinamico che spinge il marito all’efferatezza, in Verdi, l’ambiziosa Lady Macbeth assurge a statura di deuteragonista.
Con Macbeth Shakespeare riflette, e ci fa riflettere, sulla concezione prima che molti altri autori della civiltà occidentale, derivano dal testo biblico di Qohelet, il re di Gerusalemme che prendendo la parola in assemblea afferma: “È preferibile meditare sul dolore e sull'esistenza umana piuttosto che illudersi in un'esistenza senza problemi.”.
Macbeth, come Qohelet è testo del dubbio giovanile, non della certezza matura. Ed è testo spiazzante perché, aristotelicamente, fa seguire la peripezia del dramma all'esposizione iniziale complicandola all'infinito attorno alla coppia protagonista fino all'inevitabile catastrofe.
Come dire, un Lohengrin, opera wagneriana della sensualità trionfante - laddove Macbeth è opera della sensualità intrisa di morte - alla rovescia con la coppia malefica al centro dell'azione legata, come quella del lavoro giovanile di Richard Wagner, da un rapporto di dipendenza uomo-donna che rimanda a Edipo, e alla tragedia greca.
Cesare Lievi, il regista, poeta e drammaturgo lombardo che ha da poco affrontato il suo primo Macbeth, ritiene che siano tre gli elementi interessanti nel melodramma verdiano.
In primis, la relazione tra il mondo delle streghe precristiano legato alla “natura” cui Verdi era interessato, e quello della Storia rappresentato dai protagonisti.
Poi, il personaggio di Lady Macbeth che è al tempo stesso l’ultima delle streghe e la prima donna isterica.
E ancora il “valore”, ossia la parola che in bocca alla diabolica donna – “io ti darò valore” è il verso chiave della sua aria di presentazione - la lega all’imbelle protagonista.
La coppia cerca disperatamente di avere una progenie, il valore di un re all’epoca di Shakespeare e poi di Verdi, ed è talmente ossessionata da quest’idea che finirà, da un lato per uccidere i figli degli altri, e, dall’altro, a cercare, separatamente, una via di fuga nella follia.
Verdi dedicò alla composizione di Macbeth un’attenzione tutta particolare, un impegno eccezionale. E’ la sua opera più sperimentale, almeno fino a Otello. Sviluppa e restituisce quelle energie che Nabucco prima e Attila poi avevano in fieri.
“Le cose da curare molto in quest’opera sono: Coro e Macchinismo” scrive Verdi a Lanari, l’impresario di Firenze che si trovò, suo malgrado, a dispensare denari per una spesa eccezionale.
Di Macbeth Verdi fu, non solo autore della musica e coautore del libretto, volle pure sovrintendere alla regia di uno spettacolo che doveva essere coordinato alla novità del testo. L’opera è di genere fantastico, nel senso letterale del termine, vi agiscono, infatti, spettri e fattucchiere, e andava restituita in modo straordinario. Ai protagonisti, ne è testimone la prima Lady Macbeth Marianna Barbieri Nini, chiamata con il partner Varesi a sottoporsi a prove supplementari a ridosso della prima per verificarne la capacità di restituzione della “parola scenica”, non è richiesto soltanto di saper cantare, devono saper interpretare il loro personaggio che ha un posto nella Storia.
Banco deve essere rappresentato dal suo interprete, il basso Michele Benedetti, sia nella prima parte sia quando si presenta al banchetto sotto forma di spettro.
All’ozio delle Terme di Recoaro, seguì a Firenze un nuovo periodo di superlavoro per dare forma a quella che può ben essere definita una contro-opera. L’accoglienza il 14 marzo 1847 fu contrastata. Il commento di uno spettatore la definisce “una vera porcheria”, il biografo ufficiale di Verdi, Muzio, scrive che produsse “un immenso fanatismo” e Verdi fu chiamato in palcoscenico trentotto (o ventisette) volte.
Il successo ci fu, a ogni buon conto, e Verdi fu convinto del valore della sua decima opera che dedicò al suocero, benefattore e quasi padre Antonio Barezzi.
Da Firenze Macbeth passò a Venezia, Madrid, Varsavia, Lisbona, Milano. Nel 1849 fu rappresentato all’Havana sull’isola di Cuba e quindi a Vienna in tedesco. Nel 1850 arrivò a New York, Costantinopoli, Budapest in ungherese e Hannover. Nella ripresa di Padova Macbeth fece furore e il famoso duetto tra i due coniugi assassini fu ripetuto venticinque volte. Nel 1854 l’opera ribattezzata Sivardo il Sassone fu presentata a San Pieroburgo, in italiano.
Nel 1865 Parigi lo accolse al Théâtre Lyrique-Imperial nella revisione e traduzione francese del libretto. Alla versione parigina appartengono, oltre alla sostanziale rielaborazione dell’incontro con le streghe, i rifacimenti di almeno due momenti fondanti dell’opera. L’aria di Lady Macbeth che apre il secondo dei quattro atti “La luce langue” e sostituisce la cabaletta, un brano di maniera, “Trionfai! Securi alfine”, e il finale dell’opera che diventa un corale fugato e toglie a Macbeth l’originaria conclusione da protagonista con l’aria in realtà un arioso declamato “Mal per me che m’affidai” e morte sul palcoscenico.
Macbeth è opera che ha da sempre attratto i grandi registi.
Da Gustav Gründgens che ne firmò la ripresa fiorentina del 1951 a Luchino Visconti che la mise in scena a Spoleto con Schippers e poi a Trieste, per non parlare di Giorgio Strehler che firmò l’indimenticabile spettacolo scaligero diretto da Abbado, e Franco Enriquez che fu complice di Muti nella ripresa fiorentina del 1975. Giorgio Pressburger realizzò una versione molto interessante all’Opera di Roma diretta da Giuseppe Patanè nel 1987 e riteneva che Macbeth fosse un capolavoro inarrivabile in Verdi ancor più che in Shakespeare. Nonostante le cose orrende che vi accadono, Verdi, affermava il regista italo-ungherese, da quel genio che è, riesce a rappresentare due personaggi negativi e a destare empatia nel pubblico. Non ci è mai riuscito nessuno, nemmeno nella tragedia greca.
di Rino Alessi
21/05/2018
bellaunavitaallopera.blogspot.com
Bibliografia:
Cabourg, J. “Macbeth et son double: 1847-1865”, Parigi, 1982
Gatti, C. “Verdi”, Milano, 1950
Mila, M. “La giovinezza di Verdi”, Torino, 1974
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