A VENT'ANNI DALLA SCOMPARSA IL MIO RICORDO DI ORAZIO GAVIOLI CON CUI LAVORAI A "LA REPUBBLICA"

Ero da poco arrivato a Repubblica quando, il mercoledì 13 maggio del 1981 ci fu l'attentato a Giovanni Paolo II. Qualche giorno dopo dalla cronaca, dove non sapevano bene come utilizzare i nuovi arrivati, il Direttore Eugenio Scalfari che per varie vicissitudini aveva trascorso un periodo della sua vita a Trieste e cui piaceva l’idea di avere in redazione un figlio e nipote di giornalisti, mi trasferì al settore spettacoli che, per le dimissioni di una collega, era rimasto sguarnito. Arrivato nel tempio del nuovo giornalismo e nel giornale che all’epoca più faceva tendenza in Italia, dall’estremo Nord Est mitteleuropeo l’impatto non fu proprio facile. Abituato alla vita di provincia, le dimensioni di Roma mi spaventavano, non avevo una spiccata vocazione giornalistica nonostante i precedenti in famiglia e, nella mia provinciale ingenuità, non riuscivo bene a inquadrare le persone con cui avevo a che fare. Passare agli Spettacoli fu un toccasana, un po’ perché era quello, il mio terreno d’elezione e lì gravitavano i miei interessi, un po’ perché il settore, uno di quelli che dall’esterno era trainante nell’economia del quotidiano, aveva una struttura ben delineata e Orazio Gavioli, cui fin da principio era stato affidato, lo governava con sapienza. All’epoca la Repubblica, che aveva debuttato in edicola mercoledì 14 gennaio 1976, era ancora un “secondo giornale”: un quotidiano di approfondimento, per un pubblico che aveva già letto altrove i fatti del giorno. Si era presentato al pubblico con un formato berlinese, più piccolo di quelli usualmente adottati dagli altri giornali nazionali: sei colonne invece delle tradizionali nove; era composto di venti pagine ed usciva dal martedì alla domenica. Al posto della terza pagina tradizionale, la cultura di cui era responsabile Rosellina Balbi era collocata nel paginone centrale.
Il 1978 fu l'anno della svolta. All'inizio, la vendita media era di cento quattordicimila copie. Nel marzo di quell’anno l'Italia fu sconvolta dal rapimento di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, a opera delle Brigate Rosse: durante i cinquantacinque giorni del sequestro la testata di Scalfari appoggiò incondizionatamente la linea della fermezza contro le richieste dei brigatisti. Nello stesso anno apparve l'inserto Satyricon: il primo di un quotidiano italiano dedicato interamente alla satira. Sul finire del '78 la Repubblica arrivò a toccare le centoquarantamila copie. Nel 1979, con una tiratura media di centottantamila copie, il quotidiano raggiunge il pareggio di bilancio. La foliazione aumenta da venti pagine a ventiquattro. Il giornale decide, per la prima volta, di coprire gli eventi sportivi ma continua a non uscire il lunedì. Nel 1981 uno scandalo travolge il quotidiano nazionale più venduto, il Corriere della Sera, che si scopre essere di fatto controllato, sia finanziariamente sia editorialmente, dalla loggia P2. Ciò consente alla Repubblica di aumentare il numero dei lettori e di strappare al giornale concorrente alcune firme prestigiose, tra cui quelle di Enzo Biagi e Alberto Ronchey. Scalfari intravede l'opportunità di portare il suo giornale ai primi posti e lancia nuove iniziative per allargarne il bacino d'interesse; tra le altre, porta la foliazione a quaranta pagine, per dare più spazio alla cronaca varia, agli spettacoli e allo sport. La sua testata diventa un “giornale omnibus”, in altre parole un quotidiano per tutti i tipi di lettori. Questo determinò anche per le pagine degli Spettacoli un diverso modo, più popolare se vogliamo, di accostarsi alla materia. Gavioli seppe con intelligenza rettificare il tiro senza con questo tradire il suo modo di fare un giornalismo colto e intelligente. Il settore spettacoli era, quando ci arrivai, molto bene organizzato.
Certo, gli interni si lamentavano perché gli spazi in pagina erano di solito appannaggio dei collaboratori esterni e per lo più destinati alle recensioni dei film, affidate a Tullio Kezich, degli spettacoli di prosa, di cui si occupava Tommaso Chiaretti, di quelli musicali, di cui era responsabile Michelangelo Zurletti, di quelli di danza che erano materia di Alberto Testa. Della musica pop e rock si occupava già allora Gino Castaldo. Più tardi sarebbe stata istituita anche la critica televisiva e fu affidata a Beniamino Placido. Poi c’era tutto uno stuolo di vice che reclamava spazio e per lo più lo otteneva nelle pagine di Roma o in quelle di Milano. Gli interni si occupavano della cronaca, che aveva uno spazio minore nelle pagine e soprattutto delle interviste ai personaggi che Gavioli vagliava con molta accuratezza. L’atmosfera in cui si lavorava era per lo più cordiale, i malumori c’erano ma di rado prendevano il sopravvento. Gavioli era in grado di ristabilire abbastanza facilmente il buonumore. Certo, non era un capo facile da praticare. Per esempio non rispondeva mai al telefono e non telefonava mai, se non per necessità estreme, per cui gli si doveva fare da filtro non solo con il mondo esterno, ma con gli stessi collaboratori che non risiedevano a Roma. In redazione, in ogni caso, lui c’era sempre e oltre che delle pagine nazionali e di quelle romane si occupava anche di quelle del cartellone romano, il supplemento del venerdì dedicato agli avvenimenti culturali della capitale e che aveva una redazione a sé. Raramente Orazio Gavioli si assentava dal giornale durante l’orario di lavoro: anche durante la pausa pranzo non lasciava il suo posto e praticava un digiuno che, chissà perché, molti suoi redattori interpretavano come una richiesta di fare altrettanto. Non io, anche se la permanenza a Piazza Indipendenza e la frequentazione del bar posto al secondo piano dove era possibile un rapido pasto, mi ha insegnato a non divorare il cibo in velocità come si faceva a casa.
La mattinata era riservata, in genere, all’impostazione redazionale delle pagine, che spesso erano gravate di pubblicità e quindi meno capienti di quanto si era ipotizzato, e poi all’impaginazione di cui si occupava Gavioli personalmente che con il settore grafico aveva un rapporto privilegiato. Veniva poi l’assegnazione dei compiti ai redattori di turno e quindi la titolazione che era un compito arduo e che era molto sorvegliata sia all’interno del settore, sia poi dall’ufficio centrale. A un certo punto Gavioli ottenne dalla direzione che in occasione della Mostra del Cinema di Venezia parte della redazione si spostasse al Lido per seguire la manifestazione della Biennale. Settembre si trasformò, per tutti, anche per quelli che restavano a Roma, in un periodo di superlavoro. Tipiche di Orazio erano alcune espressioni, come “a che ne siamo?” per valutare se tutte le pagine erano state completate o, più esilarante ancora, “l’allegro ticchettio” che spesso diceva di non sentire in redazione riferendosi alle nostre macchine per scrivere. Quello che colpiva nel caporedattore Gavioli era il suo essere sempre informato dei fatti del giorno, e non mi riferisco solo a quelli dello spettacolo, e l’estrema competenza nella materia di cui si occupava. Da qualche tempo non frequentava più cinema, se non a Venezia, e teatri, ma era sempre informato delle novità ed era un pozzo d’informazioni su quelli legati al passato. Non era una persona che desse troppa confidenza, un po’ per la sua innata riservatezza, un po’ perché così doveva essere tra un superiore e un sottoposto. E prima di darti fiducia doveva passare un po’ di tempo perché lui si convincesse di quelle che erano le tue caratteristiche caratteriali e professionali. Devo dire che con me fu sempre molto corretto, anche perché non sono il tipo che si spinge per togliere spazio agli altri e non voglio primeggiare a tutti i costi.
Certo è che, superato l’esame professionale, ci tenne che io restassi al settore Spettacoli, mi affidò una rubrica sul cartellone romano e mi chiese di chiuderlo in tipografia finché la collega che ne sarebbe diventata responsabile non fosse diventata professionista. A un certo punto, quando maturai la decisione di dimettermi dal giornale perché l’esperienza a Repubblica la consideravo conclusa, glie ne parlai e, sia pure dispiaciuto, fu molto comprensivo e collaborativo. E finché il settore fu retto da lui, continuai a collaborare, anche dall’esterno. L’idea che più mi sono fatto di Orazio Gavioli è che fosse un capo severo ma giusto. E capace di gesti molto cordiali nei tuoi confronti nei momenti di difficoltà. Tanto è vero che, solo quando non fui più suo redattore, avemmo l’occasione di trascorrere qualche ora assieme. Questo avvenne fino all’ultimo, quando era già malato e non lavorava più al giornale. E il ricordo di quegli inviti a cena in qualche locale elegante di via Veneto resta per me prezioso per la sua magnifica compagnia. di Rino Alessi 2/04/2018 bellaunavitaallopera.blogspot.com

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