Melodramma e traduzione: una riflessione sui libretti d'opera nel convegno in occasione del centocinquantesimo anniversario della prima di Stiffelio al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

Era prassi comune fino a non molti anni fa che in Italia, e non solo in Italia, l'opera lirica fosse eseguita nella nostra lingua, l'italiano e non nella lingua originale in cui gli autori - il musicista e il librettista o, come in taluni casi, i librettisti - l'avevano concepita e scritta. I motivi che facevano preferire l'italiano a tutte le altre lingue erano svariati. Da un lato c'era un indiscutibile prestigio derivante da un fatto semplicissimo: l'opera lirica, come genere teatrale, è nato in Italia oltre quattrocento anni fa e dall'Italia è stato esportato in tutto il mondo. Dall'altro, la conclamata superiorità delle compagnie teatrali italiane faceva sì che, prima di diventare un fatto nazionale, la stragrande maggioranza del repertorio operistico fosse concepito nella nostra lingua. L'italiano, per le sue peculiarità fonetiche che ben si adattano alle esigenze del canto legato, si è trovato in questo modo ad avere una supremazia sulle altre lingue e a rappresentare in qualche misura la lingua veicolare dell'arte e segnatamente della musica. Tutto il grande repertorio tedesco e francese, comprese le opere di Richard Wagner o la Carmen di Georges Bizet tanto per fare degli esempi molto banali, per non dire di tutto il repertorio del primo e del secondo Novecento, venivano quindi tradotte in italiano. Non staremo qui troppo a sottolineare le pecche di traduzioni ormai antiquate e spesso poco convincenti. Al traduttore-versificatore si richiedeva da un lato di riprodurre nella nostra lingua, il più fedelmente possibile, i concetti espressi nel testo originale dell'opera e, dall'altro, di rispettarne i ritmi così profondamente legati alla musica.
Nel suo fondamentale saggio su L'opera lirica Herbert Lindenberger ci ricorda che già nella loro lingua originale sono pochissimi i libretti d'opera che possiedono, in sé, una loro dignità letteraria, figuriamoci quando la loro ricezione è mediata dall'opera di un traduttore: "La nostra capacità di tollerare testi mediocri o addirittura scadenti nella maggioranza delle opere>> sostiene lo studioso inglese <<è almeno in parte dovuta al fatto che anche l'ascoltatore di madre lingua perde una buona porzione, se non la maggior parte del testo." Sta di fatto che per tutto l'Ottocento e per gran parte del Novecento, non appena un nuovo titolo si affaccia al grande repertorio della musica drammatica, è tutto un fiorire di traduzioni o, per meglio dire, di versioni ritmiche. Prendiamo l'esempio della Carmen di Georges Bizet, che di questo grande repertorio occupa certamente un posto particolare e privilegiato. Carmen, che è liberamente ispirata all'omonima novella di Prosper Mérimée, viene rappresentata per la prima volta a Parigi, al Théatre National de l'Opéra-Comique, il 3 marzo del 1875. Bizet aveva messo in musica un testo, all'epoca giudicato scandaloso di Henry Meilhac e Ludovic Halévy, la stessa coppia di autori che aveva fornito a Jacques Offenbach libretti briosissimi come quello de La belle Hélène in cui la satira sociale si celava dietro il recupero della mitologia. Nonostante il finale tragico, Carmen appartiene al genere, in tutto e per tutto francese, dell'opéra-comique, ovvero di quei lavori musicali in cui i brani cantati si alternano a dialoghi recitati. Considerata genere minore, l'opéra-comique era nata nel Seicento come spettacolo delle fiere parigine e faceva da contraltare, spesso parodiandola, alla coeva tragédie-lyrique. Trattava argomenti per lo più brillanti se non decisamente comici, e spesso veniva ambientata in luoghi pittoreschi e inconsueti. Carmen, inutile dirlo, è tutt'altra cosa. Deriva da ciò il fiasco che ne accolse la prima rappresentazione e che fu, se non clamoroso come vuole la leggenda, certo consistente. Il 23 ottobre di quello stesso anno l'opera ottenne uno straordinario successo allo Hoftheater di Vienna. Per l'occasione Ernest Guiraud, un musicista amico di Bizet, che era morto improvvisamente qualche mese prima forse per un edema alla glottide, trasformò i dialoghi recitati in recitativi accompagnati dall'orchestra, mentre Julius Hopp, un compositore di operette, si occupò di tradurre in tedesco il libretto. Nel 1879 Carmen arriva per la prima volta in Italia, al Teatro Bellini di Napoli nella traduzione italiana del critico e giornalista Achille de Lauzieres.
E' la stessa traduzione che la prima protagonista dell'opera Celestine Galli-Mariée, interprete dell'eroina di Bizet anche a Napoli, adotterà quando si esibirà all'estero nel ruolo di Carmen e che in seguito, fino a non molti anni fa, sarà spesso preferita all'edizione originale in francese. Entrambe le traduzioni, quella in tedesco di Hopp e quella in italiano del de Lauzieres, fra molti difetti, possiedono una qualità, vale a dire si attagliano perfettamente alla nuova versione di Carmen con i recitativi accompagnati dall'orchestra musicati da Ernest Guiraud che sarà, da questo momento in poi, l'edizione dell'opera di Bizet più spesso adottata soprattutto all'estero: essa offre innanzi tutto il vantaggio di essere più facilmente fruita da un pubblico diverso da quello francese, poco disposto cioè a seguire lunghi brani recitati nel corso di una serata musicale e trasforma l'originaria opéra-comique in opera lirica a tutti gli effetti. Ma l'opera lirica, a differenza dell'opéra-comique destinata a spazi scenici piccoli e raccolti, ha bisogno di spettacolarità e magniloquenza. Ed ecco la traduzione tedesca del coro di soldati iniziale trasformare i versi introduttivi "Sur la place / Chacun passe, / Chacun vient, chacun va; / Drôles de gens que ces gens-là!" in cui l'accento è posto soprattutto sulla grande animazione della piazza di Siviglia e sulla bizzarria, sulla "drôlerie" per l'appunto, della gente che passa sotto gli occhi dei dragoni raggruppati davanti al corpo di guardia, nel più esplicito "Diese Menge im Gedränge! / Wie das kommt, / geht - und bleibt. / Närrisches Volk umher sich treibt." in cui si allude da subito a una nutrita presenza di persone sulla scena più che a grande animazione. Il generico passaggio si trasforma in vero e proprio schiamazzo nella traduzione italiana in cui per esigenze di rima il coro canta "Sulla piazza - si schiamazza" con quel che segue. Ma al di là di questa, e di altre, rime infelici, un'osservazione va fatta sulla versione italiana di Carmen. Essa fungerà, complice il coevo avvento del teatro naturalista, in un ottimo veicolo per la trasformazione dell'originaria opéra-comique nel prototipo dell'opera italiana di stampo verista. La lingua italiana, fortemente appoggiata sull'ampia sonorità delle sue vocali, servirà alla perfezione come strumento dell'assimilazione stilistica di quest'opera da parte di una cultura musicale diversa, geograficamente e cronologicamente, da quella in cui e per cui era nata.
In genere si parla del libretto di Carmen come di uno dei migliori di tutta la storia dell'opera e gli argomenti portati a suffragarlo sono sostanzialmente tre, il fatto che esso presenta il vantaggio di essere tratto da un testo di alto valore letterario, la felice intuizione di ambientare l'azione dell'opera in Spagna, oltre a una logica, a una trasparenza e a una consequenzialità assenti nella stragrande maggioranza dei libretti d'opera. Sono argomenti validi fino a un certo punto. Innanzitutto, l'essere tratto da un testo di alto valore letterario non è sempre garanzia di funzionalità per un libretto d'opera, pensiamo a come lo Shakespeare di Romeo e Giulietta o di Amleto è stato maltrattato nelle trasposizioni di Felice Romani per Vincenzo Bellini o di Michel Carré e Jules Barbier per Ambroise Thomas. Quanto all'ambientazione spagnola, essa deriva da Mérimée, che prima di scrivere Carmen non solo aveva fatto lunghi viaggi in Spagna, come molti suoi contemporanei, ma aveva letto quasi tutto quello che all'epoca era reperibile sugli usi e i costumi degli spagnoli e soprattutto dei gitani. L'ambientazione spagnola non è, quindi, felice intuizione dei pur valenti Meilhac e Halévy, è semmai loro merito aver saputo fornire a Georges Bizet e alla sua musica le occasioni migliori per trovare un equilibrio felicissimo - pensiamo per esempio all'atto conclusivo, in cui l'omicidio di Carmen da parte di Don José si consuma sullo sfondo di una corrida di cui è protagonista il nuovo amante della donna, il toreador Escamillo - tra il cosiddetto "colore locale" e l'azione drammatica. Quanto a Meilhac e Halévy, operano con una certa libertà d'azione rispetto alla novella originale ma ne conservano, per dirla con Friedrich Nietzsche, "la logica nella passione, la linea diritta, la dura necessità": edulcorano situazioni all'epoca considerate scabrose - Carmen, per fare un esempio, è sì una zingara che ama la propria libertà sopra ogni cosa, è sì volubile e capricciosa, ma non si prostituisce come in Mérimée, - ne eliminano altre, - Don José si fa sì disertore e poi bandito per amore della donna che ama, ma non uccide i suoi rivali, nella fattispecie l'avanzo di galera Garcia che pretende di esserne lo sposo ufficiale, per possederla, - inseriscono nella vicenda personaggi assenti nella novella di Mérimée - il già citato Escamillo o la stucchevole Micaela, la fidanzata buona e casta dell'ex brigadiere destinata a fare da contraltare in positivo alla "femme fatale" Carmen.
A Escamillo e a Micaela è affidato il compito, non secondario in un libretto d'opera lirica, di incarnare nell'economia dell'azione, il ruolo degli antagonisti. Ma se il modello per il primo, vera e propria figura di playboy "ante litteram", lo troviamo già in Mérimée dove il nuovo amante di Carmen è non un torero ma più modestamente il picador Lucas, della fragile Micaela, non c'è traccia alcuna nella novella originale, se non nella breve riflessione di Don José nel momento in cui rievoca il suo incontro con Carmen: <> Meilhac e Halévy sviluppano questo concetto nel personaggio, scolorito finché si vuole, ma audace e volitivo al punto da inerpicarsi sulle montagne in cui i contrabbandieri si nascondono nel terzo atto, della leggiadra biondina che indossa perennemente il costume tradizionale delle contadine della Navarra e delle province basche e il cui argomento principale è la madre di Don José. Quest'ultimo è, nell'opera di Bizet, un personaggio abbastanza ambiguo e sostanzialmente diverso da quello rappresentato nella novella di Mérimée. Lì, infatti, ci ricorda René Leibowitz nella sua Storia dell'opera, appare come l'incarnazione di tutte le qualità virili, se non come un essere semplice e brutale, che sa imporre la propria volontà e prendere le sue decisioni senza esitare, qui è uno spirito lacerato, un uomo diviso fra il dovere - la madre lontana, la fidanzata noiosa, una vita onesta - e l'avventura al di fuori di ogni legge, morale e civile, che gli si prospetta accanto a Carmen. E' proprio dalla contemporanea presenza di queste due diverse tensioni, l'aspirazione a una vita quietamente tradizionale e l'anelito alla libertà, che si sprigiona il dramma di Don José. Non è un caso se il linguaggio musicale in cui egli si esprime e con cui si esprime soprattutto Micaela è ancora quello dell'opera francese tradizionale, mentre a Carmen sono riservati gli "spagnolismi" più arditi della musica di Bizet. Pensiamo alla sortita della protagonista, la celebre habanera che è una trasposizione quasi letterale dell'altrettanto celebre presentazione del personaggio da parte di Mérimée: "Aveva una gonnella rossa molto corta, che lasciava vedere delle calze di seta bucate in più d'un punto, e delle graziose scarpe di marocchino rosso allacciate con nastri color fuoco. Scostava la mantiglia per mostrare le spalle e un grosso mazzo di gaggia che le usciva dalla camicia. Aveva un altro fiore di gaggia all'angolo della bocca e veniva avanti dondolandosi sui fianchi come una puledra dell'allevamento di Cordova. Nel mio paese una donna così acconciata avrebbe spinto la gente a farsi il segno della croce."
Per la cronaca, Bizet fu costretto a riscrivere tredici volte questo brano senza che la protagonista ne fosse soddisfatta. Alla fine lo sostituì con una canzonetta di un compositore spagnolo di musica leggera, Sebastian Yradier che, opportunamente rielaborata e riversificata, è la ben nota habanera di Carmen. Il testo, che la leggenda vuole sia stato scritto dallo stesso Bizet, diventa nella trasposizione italiana del de Lauzieres il celebre distico "E' l'Amore uno strano augello, / Nessun lo può domesticar." che, storpiato, verrà citato da Luigi Pirandello in Questa sera si recita a soggetto e che risolve, con una terminologia certamente datata ma sostanzialmente efficace, l'originario "L'amour est un oiseau rebelle / Que nul ne peut apprivoiser.". Un'osservazione va fatta ancora, a proposito delle traduzioni di Carmen: mentre in Germania, dopo il primo tentativo di Hopp, sono state prodotte almeno tre nuove traduzioni in verso del libretto, due negli anni Trenta e una nel 1960 a cura del celebre regista Walter Felsenstein, in Italia e nei paesi ispanofoni il testo ottocentesco del de Lauzieres è stato utilizzato fino a quando le nuove esigenze filologiche e la versione critica curata da Fritz Oeser che ripristina i dialoghi parlati dell'originale alternandoli ai brani musicali dell'opera, non hanno preso decisamente il sopravvento. Carmen, insomma, è tornata a essere un'opéra-comique. Se già la trasposizione in lingua italiana del libretto di Carmen pone numerosi problemi, più complesso e articolato è il discorso sulla traduzione italiana dei libretti di Richard Wagner. Wagner, come si sa, oppone, con la sua riforma teatrale, alla tradizionale opera all'italiana a "pezzi chiusi" (aria, recitativo, duetto, coro e via dicendo), le opere della musica aperta e della melodia infinita. Il suo teatro musicale comporta soggetti grandiosi, continuità di azione scenica, stretta relazione fra testo poetico e musica, e fra canto e recitazione, determinante partecipazione orchestrale. La nuova concezione del dramma musicale wagneriano sopprime il dualismo librettista-compositore per creare una composizione, il "Wortondrama" in cui il senso magico e arcano delle parole travalica i limiti del tempo per affermare significati universali e perenni. Wagner, a questo punto scrive in prima persona i propri libretti. In una delle dicotomie assolute tipiche dei suoi scritti critici, Wagner oppone il poeta ("der Wortdichter"), il quale può al massimo "condensare in un sol punto azioni, sentimenti, espressioni comprensibili solo all'intelletto", al compositore ("der Tondichter"), che con i suoi mezzi - prevedibilmente superiori - è in grado di "dilatare il punto denso e compresso, portandolo alla più alta pienezza, in relazione al suo contenuto emozionale totale".
Poi, ricorrendo ad antinomie sessuali, definisce la musica come elemento femminile o "partoriente" ("Gebärrerin") e il testo come elemento maschile o "procreatore" ("Erzeuger"), e determina una priorità della parola a scapito della musica che contraddice ciò che, nell'insieme, la sua teoria pretende di stabilire. In realtà per Wagner le parole hanno precedenza sulla musica solo in senso temporale, suggeriscono una strada da intraprendere che solo la musica e quindi il musicista potranno condurre a piena realizzazione. La concezione dell'opera lirica come "Gesamtkunstwerk", opera d'arte totale, è perciò stesso una definizione della sua superiorità non solo rispetto all'insieme di forme artistiche che esso è in grado di assumere in sé, ma rispetto all'intera gamma dei processi comunicativi instaurabili fra opera d'arte e pubblico: "il dramma più autentico è concepibile unicamente quale risultato dell'impulso collettivo di tutte le arti a comunicare nel modo più immediato con un pubblico collettivo: ogni forma artistica individuale si rivela completamente comprensibile a questo pubblico collettivo solo attraverso una comunicazione collettiva."
Ma torniamo ai libretti wagneriani. Dopo i primissimi esperimenti in cui le fonti sono più decisamente letterarie - Shakespeare, per esempio, per Der Liebesverbot - all'origine delle scelte dei suoi soggetti ci sono l'amore per le leggende, il recupero del passato e delle mitologie nordiche propri del Romanticismo. Der fliegende Holländer si ispira alla leggenda raccontata da Heine, Tannhäuser a una vecchia canzone popolare tramandata da Tiek, Lohengrin si rifà all'anonima epopea medioevale del cavaliere del cigno che tornerà nell'ultima opera del compositore, Parsifal. Concepito nel 1848 e rappresentato nel 1850, Lohengrin arriva in Italia soltanto nel 1871, a Bologna, nella traduzione di Salvatore Marchesi, cantante e compositore siciliano cui si devono anche le versioni di Tannhäuser e di Der fliegende Holländer utilizzate fino a non molti anni fa in tutti i teatri italiani e di area linguistica ispanofona. Lohengrin è anche l'opera wagneriana la cui esecuzione in lingua italiana resiste più a lungo, la stagione scorsa, per esempio, ne è stato tentato un recupero al Teatro Regio di Parma. Non è difficile capire il perché di questa resistenza. Da un lato Lohengrin è considerata l'opera più popolare di Wagner, forse, come ci suggerisce Ladislao Mittner, perché è la più orecchiabile, dall'altro essa segna una svolta nell'evoluzione del linguaggio teatrale wagneriano, ma è ancora intimamente legata alla tradizione dell'opera italiana che il musicista conosce bene e la cui influenza è molto avvertibile nei suoi primissimi lavori.
Solo dopo Lohengrin il suo teatro, partito da un assetto in cui il recitativo declamato si apre a pezzi chiusi o a frequenti forme ariose, assumerà la forma di un'opera in cui l'idea melodica è quasi esclusivamente affidata all'orchestra, mentre il canto, salvo rari casi, è soltanto declamazione, potremmo dire quasi prefigurazione di quello che nel Novecento diverrà lo "Sprechgesang" delle opere vocali di Alban Berg. Del resto, le caratteristiche fonetiche della lingua tedesca, contraddistinta da complessi fenomeni coarticolatori, pongono gravi difficoltà ad adattarsi a una vocalità imperniata sulla melodia spiegata all'italiana com'è quella dell'opera tradizionale. Nel Lohengrin, però, canto spiegato e declamazione convivono ancora. Curiosamente il primo è affidato soprattutto ai due personaggi positivi della vicenda, il protagonista ed Elsa von Brabant, mentre la coppia malefica formata da Friedrich von Telramund e dalla sua diabolica moglie Ortrud prefigurano già, nel loro modo di esprimersi, quella che sarà l'evoluzione del canto wagneriano. Non è un caso, quindi, che gli ariosi più frequentati dagli esponenti della scuola di canto italiana siano proprio il racconto di Lohengrin dell'atto terzo, il celebre "In fernem Land, unnahbar euren Schritten, / liegt eine Burg, die Monsalvat genannt." che diventa, nella versione del Marchesi "Da voi lontan, in sconosciuta terra / havvi un castel, che ha nome Monsalvato." e quello del sogno di Elsa dall'atto primo "Einsam in trüben Tagen / hab ich zu Gott gefleht" ovvero "Sola ne' miei prim'anni, / in preda a rio dolor."
Un'osservazione a proposito delle traduzioni italiane dei libretti di Wagner: esse tendono, molto più di quelle di altri libretti, a trasferire da una lingua all'altra non tanto il significato testuale dell'originale, quanto il suono della parola cantata. Questo comporta spesso artificiosità oggi difficilmente tollerabili. Per contro il cosiddetto Wagner italiano non ha avuto nello stile esecutivo di questo autore, le caratteristiche che riscontravamo a proposito di Carmen, ovvero di una pesante sottolineatura in chiave veristica di un testo originariamente destinato a esecuzioni meno ridondanti e drammaticheggianti. Anzi, in certe esecuzioni storiche degli anni passati è sembrato prefigurare quella complessa opera di liricizzazione della declamazione cantata che è da annoverare fra le maggiori conquiste degli ultimi anni nell'interpretazione wagneriana. 9.03 Nelle foto alcune immagini dell'allestimento di Carmen di Bizet per la regia di Calixto Bieito e di Lohengrin con Jonas Kaufmann di Rino Alessi bellaunavitaallopera.blogspot.com

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