SUCCESSO AL TEATRO FILARMONICO DI VERONA PER IL VERONESE FRANCO FACCIO E PER IL SUO AMLETO IN PRIMA ESECUZIONE ITALIANA MODERNA: dubbi sull'opera e sul libretto di Arrigo Boito, ottima la realizzazione di Fondazione Arena
E’ arrivato anche in Italia, a centocinquant’anni dal fiasco che ne salutò la ripresa alla Scala, dopo il successo della prima genovese del 1865, l’Amleto di Franco Faccio su testo, - è il suo primo libretto in assoluto, - di Arrigo Boito. L’opera, programmata dalla Fondazione Arena di Verona al Teatro Filarmonico qualche stagione fa, fu cancellata dalla pandemia di coronavirus e la si ripresenta adesso, in un’assolata domenica veronese, a Teatro Filarmonico quasi pieno.
Come dire, la risposta del pubblico, - molti gli addetti ai lavori, naturalmente, - fa ben sperare. Quanto meno nella curiosità dei veronesi nei confronti dell’ultima, quasi sconosciuta, opera di un loro illustre concittadino, Franco Faccio per l’appunto, il cui nome è passato alla storia come Maestro concertatore e direttore delle prime scaligere di Aida e Otello, grandi titoli dell’estrema maturità verdiana.
A parte quest’iniziativa della Fondazione Arena, però, la storia recente di Amleto ci arriva tutta dall’estero, nel disinteresse conclamato per i fatti della nostra cultura, da parte del Belpaese.
L’Amleto di Franco Faccio è stato, infatti, riportato alla luce dal compositore e direttore d’orchestra americano, di origini italiane, Anthony Barrese che ne ha curato l’edizione critica. Vincitore di numerosi premi con le sue composizioni, Anthony Barrese è stato protagonista, come direttore, d’importanti produzioni sia negli Stati Uniti che in Europa, sia pure in situazioni di seconda fascia, come una Turandot, ad Ascoli Piceno e poi all’Opéra di Massy, nella banlieue parigina nel 2008.
Uscita dal repertorio dopo il fiasco della ripresa scaligera del 1871, l’opera vi è ritornata grazie all’edizione critica di Barrese che fu la logica conseguenza di una casualità che lo mise in contatto con Philip Gossett, il principale curatore delle edizioni critiche di Verdi e Rossini e, grazie a lui, con Gabriele Dotto e a Maria Pia Ferraris della Ricordi che gli fornirono un microfilm dell’autografo.
Tutte queste operazioni durarono oltre un anno. Iniziò a quel punto, la ricerca, altrettanto ardua, di trovare un palcoscenico disponibile ad allestire la creatura di Faccio che, alla fine, fu resa possibile dalla nomina di Barrese a direttore artistico dell’Opera Southwest di Albuquerque nel 2010.
Lì era, infatti, prassi piuttosto comune accostare alle rappresentazioni di opere molto conosciute ed amate dal grande pubblico, quelle di rarità. Nel 2012 fu la volta dell’Otello di Rossini, anch’esso di ascendenza shakespeariana, qualche anno dopo fu la volta di Amleto. Dopo quella prima esecuzione in epoca moderna del 2014, l’opera è stata rappresentata a Wilmington (Delaware) e, più conosciuta anche grazie all’incisione che fu finita nel corso delle recite, al Festival di Bregenz dell’estate 2016 sotto la direzione di Paolo Carignani e con una compagnia che comprendeva anche artisti italiani, come Claudio Sgura nei panni dell’omicida Re Claudio.
Detto questo, e rilevati i punti di forza nei legami con il mondo operistico italiano, in particolare con il mondo verdiano di Macbeth e Rigoletto, si dimostra che, anche per la qualità dell’orchestrazione Faccio è, nonostante le dichiarazioni scapigliate dell’epoca alla ricerca di novità, compositore radicato nella grande tradizione del melodramma italiano.
Era italiano, va detto, nel modo di sentire istintivamente il dramma musicale. Come direttore d’orchestra e studioso della musica tedesca, ebbe un senso dell’orchestra molto raffinato; ciò che è soprattutto evidente nella versione scaligera.
Restano, però, le notevoli differenze tra la versione genovese del 1865 – coronata da successo, fra le perplessità di molti, Verdi compreso, - e quella scaligera del 1871. E resta, soprattutto, a un ascolto effettivo, l’inconsistenza, drammaturgica e musicale, di gran parte dei due primi atti di questo Amleto declamatore che finisce per risultare un personaggio poco comunicativo e poco fruibile da un pubblico attento alle ragioni del dramma.
Amleto prende quota negli ultimi due atti, e solo a sprazzi, quando in primo piano sono le passioni familiari del protagonista. L’apparizione dello spettro paterno, annunciata in modo macabro dall’intervento dei becchini, è un buon momento di teatro, e così il successivo duetto fra madre e figlio, dove la figura di Gertrude si esprime in modo chiaramente derivato dai grandi melodrammi verdiani, il che diventa evidente nella successiva aria della Regina.
Anche la grande scena della pazzia di Ofelia offre all’interprete modo per emergere, anche se quella che Amleto vorrebbe “monachella”, è una figura sbalzata solo a metà. A sua volta l’omicida Re Claudio ha un suo buon momento nella recita del Padre Nostro che, non a caso, rimanda a quella verdiana dell’Ave Maria recitata da Desdemona su testo del blasfemo Boito.
Quanto alla realizzazione dell’opera, è un’impresa ardua. Richiede un nutrito organico orchestrale, un Coro di grandi capacità, e un gruppo di solisti solido e numeroso. Al Filarmonico li abbiamo trovati nell’Amleto di Angelo Villari, intenso, anche se brechtianamente estraneo ai dubbi che lo attanagliano, ma di bella voce e forte temperamento tenorile; nel Re Claudio di Damiano Salerno e nelle due eccellenti primedonne, Marta Torbidoni che è la Regina Gertrude e si rivela interprete sensibile, capace di forte concentrazione sul personaggio, e Gilda Fiume che porta a Ofelia il suo timbro fragrante e la sua bella musicalità.
Bravi anche gli altri, ossia Francesco Leone (Polonio), Alessandro Abis (Orazio), Davide Procaccini (Marcello), Saverio Fiore (Laerte, personaggio duplice e come tale di ardua restituzione, ben risolta dal valido artista), l’ottimo Abramo Rosalen nei brevi, ma pregnanti, interventi dello Spettro paterno.
C’è poi il Coro stabile della Fondazione Arena magnificamente preparato da Roberto Gabbiani. E, in buca, l’Orchestra da cui Giuseppe Grazioli ricava sonorità ben calibrate a sostenere i ritmi vorticosi di musiche che, in gran parte, hanno fretta di essere ascoltate per essere presto dimenticate.
Lo spettacolo, firmato da Paolo Valerio (regia), Ezio Antonelli (scene e projetion design), Silvia Bonetti (costumi) e Claudio Schmid (luci) è di quelli che si fanno seguire senza porre troppi problemi, e che il pubblico applaude con piacere.
Alla prima domenicale un bel successo per Faccio e Boito, scapigliati sì, ma sempre all’ombra di Verdi.
23/10/2023 di Rino Alessi
Info e Foto Ennevi: www.arena.it bellaunavitaallopera.blogspot.com
Commenti
Posta un commento