SERENA FARNOCCHIA O DELLA VITA SERENA

E’ una donna serena, ci si perdoni il gioco di parole, Serena Farnocchia che mi risponde a telefono nel suo bell’italiano scandito alla perfezione da brava toscana, nata a Pietrasanta, nel cuore della Versilia. Ho avuto una sola occasione per ascoltarla dal vivo, quando fu Amelia Grimaldi ossia Maria Boccanegra in un remoto Simon Boccanegra triestino negli anni, dorati, della gestione Cambreleng-Vigié del Teatro Verdi. Non ci incotrammo allora e non ci siamo incontrati dopo, ma tramite i socialnetworks seguo l’evoluzione della sua vita d’artista sempre stimabile. La stima si è trasformata in ammirazione sincera quando Serena che ha studiato canto con Giampiero Mastromei, rivelò che il suo Maestro era scomparso. E’ stata lei a restargli accanto negli ultimi giorni della sua vita. Mastromei, argentino di formazione, era originario della Versilia dove era tornato per chiudere la sua vita: da tempo era malato gravemente come mi riferiva di tanto un tanto Nidia Cotic, la vedova di Carlo Cossutta il tenore venuto dal Carso ed emigrato, come Mastromei in Argentinas, negli anni delle grandi migrazioni.
“Giampiero era il mio papà artistico, glielo dovevo. Ero agli inizi e andai da lui per un consiglio. Qualcuno mi aveva detto che gli insegnamenti di quella che era la mia maestra di tecnica mi stavano portando fuori strada. Chiesi consiglio a lui che mi rassicurò a tal punto che per tre anni mi ha seguita senza prendere una lira. Venne a casa mia e per quattro ore lavorammo duramente. Al termine di quella prima lezione mi disse che la tecnica andava benissimo. Io ero già, allora un soprano lirico pieno, una voce da Micaëla o da Mimì, per intenderci. Lui mi fece studiare da lirico-leggero. La Sonnambula, I Puritani, L’Elisir d’amore. Mi fece addirittura cantare le arie della Regina della Notte per tenere allenati il registro acuto e la coloratura.” Già allora era la classica voce italiana, Serena Farnocchia che agli inizi degli anni Novanta inanellò primi premi in concorsi in tutta Europa, fino ad arrivare, nel 1995 al “Luciano Pavarotti” di Philadelphia. Dopo aver frequentato l’Accademia della Scala nel biennio 1997/1998, debuttò nella sala del Piermarini in Donna Anna nel Don Giovanni sotto la direzione di Riccardo Muti. Il suo repertorio era quello classico del soprano lirico di scuola italiana, toccò il Settecento di Paisiello cantando La Cecchina al Piccinni di Bari, fu la Contessa e Fiordiligi in Mozart, Mimì e Liù in Puccini, Amelia del Simon Boccanegra e Alice del Falstaff, Desdemona e, molto spesso, anche Micaëla nella Carmen di Bizet. Da subito Serena Farnocchia è stata una migrante dell’opera, ha cantato tanto in Canada “dove le migrazioni dall’Italia non sono mai cessate”, è di frequente ospite d’istituzioni del Sol Levante. “Vado, dove sono richiesta” mi conferma “da noi è un momento di crisi, ho lavorato in tutti i grandi teatri italiani, oggi lo faccio meno. L’artista deve emigrare, dove lo porta il suo lavoro. In Giappone sono stata di recente per Otello, c’è una tale passione per l’opera che imparano l’italiano per parlare in italiano con i cantanti italiani dopo le recite.”
E’ dura la vita della migrante? “Finché mia figlia non andava a scuola era più facile, veniva sempre con me e con mio marito che è pianista accompagnatore e mi segue. Ora che va a scuola parto sola e benedico santo Skype che ci tiene in contatto e fa sembrare di essere assieme. Sono in tanti che mi dicono, sei una donna fortunata, viaggi, canti e vedi il mondo. Non sanno quanta fatica e quanto studio ci vogliono per mantenere alto il proprio livello.” Non avere famiglia, però, è forse ancora più duro…”Per me lo sarebbe stato, ho avuto una famiglia normale, se ha ancora senso questa parola, e ho voluto crearmi una vita da moglie e da mamma cui dedico ampi spazi.” E il repertorio? “Pian piano si allarga e si complica. Con il Maestro Muti ho fatto Manon Lescaut di Puccini all’Opera di Roma ed è stata una fortuna debuttare con un direttore così in un personaggio tanto esigente. Adesso lo rifarò in concerto in Nuova Zelanda. Da due anni canto Madama Butterfly e l’ho ripetuta al San Carlo e a Monaco, a livello emotivo è ancora più difficile di Manon. Entro dopo quaranta pagine di partitura e non esco più. Ci vuole tanta resistenza.”
Le piacerebbe cantare Wagner? “Perché no. Ma noi italiani non siamo presi in considerazione in questo repertorio. Eppure ho fatto in ceco La sposa venduta di Smetana al Comunale di Bologna. Fu un lavoro lungo tradussi il testo in italiano dal francese e mi feci aiutare da un’artista ceca che mi fece ascoltare il testo parlato per memorizzarlo. Il ceco è una lingua senza vocali, ogni parola sembra un codice fiscale…”
Oltre che serena, è una donna dalla battuta pronta Serena Farnocchia, da brava toscana. E non è un caso se ha cantato pure la Vedova allegra. “Fu a Salerno con Oren che mi chiamò all’improvviso sul telefonino. Siccome siamo amici con Gabriele Viviani, il baritono, e gli piace molto imitare i maestri, quando risposi, dissi, vabbè Gabriele. Invece era Oren che mi diede una settimana di tempo per prepararla. Ci riuscii. E’ stata l’unica esperienza in operetta e mi sono divertita.” Non dover sempre morire sulla scena è piacevole… “Direi. Uno dei ricordi più belli della mia carriera è il Falstaff al Petruzzelli di Bari con Luca Ronconi con cui già l’avevo fatto a Firenze. Ma lo spettacolo di Bari, mi disse Ronconi, gli piaceva di più. Le comari dovevano essere non cattive, perfide. Fu un vero gioco di squadra.” E poi? “E poi ci sono tanti progetti. Verdi e Puccini resteranno però il fulcro del repertorio. Penso ad Aida, a Un ballo in maschera… Stiamo a vedere.”

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