Riflessioni di Giovanni Boer, Parroco di Santa Eufemia e Santa Tecla a Grignano - V Domenica di Pasqua --- Anno B -- Gv 15,1-8
“Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli ”.
Questo passo evangelico, assieme agli altri passi che nella Bibbia parlano del popolo di Israele come vite piantata da Dio, sta alla base di una delle immagini più caratteristiche raffigurate nelle antiche basiliche cristiane. Non in tutte ma in molte. E cioè la vite, rappresentata per lo più a mosaico nei pavimenti delle chiese. Spesso, questa vite si dirama addirittura dall’abside, dove sovente è riprodotto il Cristo Onnipotente (Pantocrator, alla greca). La vite “scende”, a mosaico, lungo il pavimento del presbiterio e si diffonde lungo la navata o le navate della basilica, a indicare la Chiesa che fa tutt’uno con il Suo Signore Gesù. Lui la Vite, noi i Tralci. “Io sono la vite”; “senza di me non potete far nulla”; “il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite”; “chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca ... lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. Parole chiarissime, secche, illuminanti; fastidiose anche? Certo anche tonificanti. Descrivono una “gerarchia” perfetta, che non può essere intesa come qualcosa che soverchia la nostra libertà e la nostra dignità. Chi pensasse che con queste parole Gesù compie un atto terroristico nei confronti della nostra libertà, non avrebbe compreso nulla: né di se stesso, né di Gesù, e nemmeno della libertà. La quale libertà non può essere intesa come capacità di fare quel che si vuole (in effetti è la volontà che fa quel che vuole, quel che le piace – a volte, dobbiamo dire, purtroppo!). La libertà ce l’abbiamo, al di là delle nostre convinzioni di quello che essa sia, quando comprendiamo le cose e le persone senza errore, quando scegliamo di fare ciò che è vero bene. Non è un attentato alla nostra libertà quel che dice Gesù.
L’immagine della vite che Gesù adotta, per dire ai Suoi discepoli che ciò che è stato scritto nei Salmi e nei Profeti si realizza in Lui, è semplice, forte, icastica. Ed è un modo con il quale Gesù dice ciò che San Giovanni e San Paolo a modo loro dicono nelle loro lettere. Noi siamo stati creati IN Gesù, PER MEZZO di Gesù, a MOTIVO di Gesù. Se partiamo da questo fatto, che è uno dei fondamenti di quanto ci è stato rivelato, dobbiamo prendere atto che la nostra vita è vita, vita vera, quando viviamo in questa vite. Perché dal nerbo della vite scaturisce la linfa che fa vivere i tralci e che fa scaturire i grappoli, gustosi e nutrienti. Pensate: l’immagine non dice schiavitù, dice grande dignità, e gran gusto, gran bontà. La vite non dà grappoli senza tralci. Si potrebbe dire che Gesù non dà frutto senza di noi? Sì, in un certo senso, e senza montare in superbia!, si può dire. Vite, tralci, grappoli. La vite è apprezzata per i grappoli che dà. Gesù viene apprezzato se i tralci danno un buon grappolo, un buon vino.
Ancora qualche spunto. Guardiamo questi verbi: “potare”, “tagliare”, “gettare via”, “rimanere in”, che vuol dire, nel caso specifico, abitare a diritto in una casa come in casa propria. Dico con poche parole per provocare la riflessione, ed eventualmente anche un esame di coscienza. Per abitare in Gesù come a casa propria, il tralcio dev’essere di tanto in tanto potato, pulito affinché dia sempre il frutto migliore. E chi pota è Dio stesso, che trova i modi Suoi per educarci e renderci fruttuosi e gustosi. Il pericolo vero, e non per modo dire – perché Gesù non parla per fare “spauracchio” mentre poi è bonaccione – è che possiamo essere gettati via dalla vite. Ma per colpa nostra. Concentriamoci però, almeno ora, su questa domanda, io per primo, e voi: cerco mai di comprendere come Dio mi sta educando, e quindi “potando”, “rafforzando”? Mi chiedo mai cosa Dio vuole che io abbandoni, cosa vuole che io acquisti, e quali altri segreti concimi sta usando per me, per farmi essere un tralcio dal grappolo gustoso e salutare?
Pace e Bene
Aggiungo per voi qualcosa. Su due espressioni.
[1] “ Abitare in/rimanere in ”. Sant’Agostino diceva che Dio è più intimo a noi di noi stessi. Il linguaggio dei santi, dei mistici, le riflessioni teologiche della Chiesa e – prima di tutto e soprattutto – quel poco/tanto che ci hanno lasciato scritto gli Apostoli e i discepoli della prima, ... tutto questo ci dice con parole ed espressioni differenti la stessa ‘cosa’: “Dio è più intimo a noi di noi stessi”. Ma con un senso che non vuol essere una sorta di incitamento o eccitamento per gratificarci e basta. Lo intendono veramente. Tanto che, se uno volesse fare un po’ di scienza dell’intimo, della struttura umana – al di là di quello che sono gli atomi e le molecole e le sub-particelle – dovrebbe dire, e deve dire che l’anima è ciò di cui non c’è nulla di più intimo e profondo nella persona. Ma, dando valore a quanto testimonia Gesù, e con Lui i santi, possiamo affermare che Dio, una volta che “sta dentro”, che “abita dentro”, che “dimora dentro”, è ancora più profondo della nostra anima. Se l’anima ‘congiunta’ mirabilmente al nostro corpo è ciò che ci fa essere noi stessi distinti da ogni altro essere, Dio–dentro–di–noi è ‘ciò che’ ci fa essere. E che fa essere quell’anima e quel corpo unici, quella persona unica e irripetibile.
Quando c’è poi la grazia, quando ci ha tolto il Peccato originale, allora è come se Dio ‘potesse’ abitare con ‘più spazio’, con ampio respiro, come “a casa Sua”. E fa da proprietario. Proprietario d’amore. E può, lentamente ma inesorabilmente, far vivere tutte le ricchezze depositate in quella persona. Se Dio non ha questo spazio pienamente a Sua disposizione, la persona diviene poco a poco atrofizzata, o peggio: sviluppa i suoi doni nella superbia, nella pretesa di essere, di fatto – checché ne dica –, sempre servita e riverita dagli altri.
E Dio, rimane come in uno spazio sempre più angusto. E che può fare? Si riserva sempre ‘come’ un angolo profondo, inaccessibile a tutti, anche alla stessa persona, che manco sa di avere questo spazio profondo ultimo, intimo più che intimo. E cerca, Dio, di ‘colpire’ e stuzzicare la persona perché si ravveda. Fino in punto di morte. Questa costanza e pazienza di Dio ci tranquillizza da un lato, ma dall’altro ci fa comprendere la severità del giudizio finale se quella persona, coscientemente, avesse irriso Dio, e si fosse ritenuta lei un dio.
Noi rimaniamo, però, almeno per un po’ oggi affascinati da questo: Dio è più intimo a noi di noi stessi. Non tutti pensieri che noi facciamo su Dio saranno giusti, per il fatto che Lui è più intimo a noi di noi stessi ma, di certo, Lui tratta sempre di educare, lentamente, tutti i nostri pensieri, se lo lasciamo fare.
[2] “ Potare ”. Non m’intendo di potatura, ma so almeno che la potatura comporta tre cose: (1) togliere via, (2) un tempo adatto per la potatura, (3) la capacità di potare da parte del potatore, che ha esperienza e sa quel che deve fare. Sì, se vogliamo possiamo anche aggiungere che la pianta non si deve ritirare mentre viene potata, non deve scappare, non deve rifiutarsi. Quest’ultima osservazione, la quarta, sembra quasi stupida, ma dato che dobbiamo parlare di noi, non é fuor di luogo dire che ci vuole da parte nostra la disponibilità a essere potati. E, fuori dall’immagine, quest’ultima osservazione è quella che conta di più quando per noi si tratta di lasciarsi potare da Dio.
Come Dio usa potarci? Anzitutto il tempo; questo posso dirlo con certezza: in continuazione. Per noi uomini non c’è un tempo adatto e uno sbagliato per la potatura. Ci possono essere momenti in cui la potatura è più vistosa, più percepita, ma il tempo per noi è sempre.
L’abilità del potatore: nessuno la metterebbe in discussione, se siamo convinti che Dio è Dio. Certo, può usare sistemi che non ci piacciono, ma l’esperto è Lui, e dobbiamo anche riconoscere che ha molta pazienza. Sopporta, per esempio, che noi commettiamo errori gravissimi.
Il modo: qui l’immagine della potatura va un po’ in tilt, soffre un po’ di difficoltà. Potare vuol dire togliere tagliando e buttar via. I santi ci hanno insegnato (e lo stesso insegnamento lo si trova sotto mentite spoglie anche nel Nuovo Testamento) che Dio toglie via le scorie dalla nostra persona per renderla bella attraverso le prove della vita e la sofferenza. E nessuno può negare che ciò sia vero. Tutti, però, dovremmo anche dire che – al di là del modo in cui ogni santo può esprimersi – Dio non si diverte a mandarci prove difficili e sofferenza. Non è per nulla contento di questo. Siccome nel Suo disegno, spesso imperscrutabile, non ci evita le sofferenze e le prove e le malattie, e la morte, noi dobbiamo dire che le permette, poiché Gesù, così come alcune pagine dell’Antico Testamento, insegna che Dio non sceglie appositamente una prova dolorosa per educarci, non se la inventa apposta per noi. Ma, una volta che essa accade, usa anche quella per purificarci.
Usa anche quella. Non solo dunque. Cos’altro usa? Sembra forse strano dirlo, visto che l’immagine del potare indica il togliere. In verità, Dio usa prima di tutto le nostre qualità, più o meno nascoste, più o meno evidenti. Dio vuole educare le nostre qualità: è questa, in effetti, la parte più attenta e determinante della potatura di Dio. Anzi, senza questa parte noi nemmeno potremmo accettare la parte dura, la parte della sofferenza.
Tutte le qualità: nessuna esclusa, in specie quelle interiori, poiché quelle fisiche, quelle più ‘esteriori’ prima o poi se ne vanno. E le qualità interiori Dio cerca di tirarle fuori e tenerle pulite dalla superbia, dalla vanità viziosa, dalla presunzione, dalla superficialità. E se la preghiera è fondamentale nella prova dura, la preghiera è altrettanto fondamentale nella potatura bella, perché l’intelligenza, la volontà, la fantasia, l’inventiva, la simpatia, lo zelo, la disponibilità al servizio, la capacità di resistere al male e alla fatica interiore, la pazienza ... tutte queste qualità possono ammalarsi di quelle malattie che ho indicato prima (superbia, superficialità, presunzione ...), e si ammalano lentamente lentamente. Proprio come, invece, crescono e si rafforzano lentamente lentamente. Qui abbisogniamo di preghiera continua, in qualsiasi età della vita ... “Signore, fammi scoprire e sviluppare la qualità che ho e che ora qui mi servono, e salvami dalla superbia, dalla superficialità, dalla faciloneria, dalla presunzione, dall’orgoglio, dalla vanità sottile e perversa”.
Sulle prove della vita, non serve che io dica tanto ... Le conosciamo tutti: “ogni giorno ha la Sua pena”, ricordava il saggio di Nazareth!, che era anche Figlio di Dio. Ma certo, le prove della vita, se non ci sono preghiera e serenità interiore, che è data dalla presenza viva e fresca delle nostre qualità interiori, a lungo andare logorano, e ci convincono che la nostra vita non vale più nulla e non è degna più di nulla. Preghiamo per non entrare in questa tentazione, e rimanere invece nella costante presenza di Dio, più intimo a noi di noi stessi.
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