UNA RIFLESSIONE SU MEFISTOFELE ALLA LUCE DEL BELLO SPETTACOLO IN SCENA AL GRAN TEATRO LA FENICE: IL CAPOLAVORO DI BOITO SI ADDICE AL PROTAGONISTA ALEX ESPOSITO E A UN ASSIEME SCELTO CON GRANDE CURA. L'OPERAZIONE HA SUCCESSO E SEGNA UN PUNTO A FAVORE DELL'OPERATO VENEZIANO DI FORTUNATO ORTOMBINA IN PARTENZA PER LA SCALA

Arrigo Boito (1842-1918) concepì il suo progetto operistico sul "Faust" di Goethe nel 1862, all'epoca del suo viaggio in Europa grazie a una borsa di studio del Conservatorio di Milano attratto dal dibattito goethiano sui destini dell'umanità che divide e unisce Faust e Mefistofele, figura diabolica e tentatrice. Mefistofele finisce per diventare il protagonista di un'opera che, nel 1868, l'autore propose alla Scala. L'insuccesso fu clamoroso. Presentato al pubblico come l'autore che avrebbe dovuto rinnovare l'opera italiana, di Mefistofele, Boito - attivo nell'avanguardia artistica e patriottica della scapigliatura milanese - aveva scritto, al modo wagneriano, anche il testo e fu vittima delle reazioni, violente, a una campagna di stampa polemica e rumorosa. L'opera, del resto, aveva una durata abnorme, oltre cinque ore di musica, e perfino l'editore-amico, Giulio Ricordi, fu costretto ad ammettere che si trattava di un lavoro mancato. Sette anni più tardi Mefistofele, opportunamente tagliato, ottenne il successo al Teatro Comunale di Bologna.
Altri ritocchi l'opera subì per la ripresa veneziana del 1876. La versione definitiva in quattro atti con un prologo e un epilogo fu presentata nel 1881 alla Scala: nel frattempo Boito si era riconciliato con Giuseppe Verdi e, con la revisione di Simon Boccanegra, era iniziata - auspice Giulio Ricordi editore di entrambi i musicisti - una lunga e proficua collaborazione. La versione definitiva di Mefistofele segna la sconfitta delle ambizioni boitiane di adattare per la scena entrambe le parti di "Faust" e la pretesa di quella originaria di tradurre sulla scena operistica non, come Verdi e poi Puccini, l'espressione dei sentimenti, ma la materia filosofica goethiana. L'autore ripiega sullo schema tipico del melodramma, ma il modello può anche essere ravvisato ne L'Africaine di Meyerbeer che, in quegli stessi anni, trionfava sui palcoscenici italiani. I tagli imposti dalla revisione portano, in ogni caso, a quello che è il difetto principe del capolavoro boitiano: la sua fragilità drammaturgica - gli episodi si susseguono l'uno all'altro senza una soluzione di continuità - compensata, spesso e volentieri, dalla nobiltà di alcune pagine. Per esempio, nel terzo atto l'aria di Margherita, soprano, in carcere "L'altra notte in fondo al mare" che riproduce lo schema ottocentesco della "scena della follia" con la voce solista impegnata in ornamenti virtuosistici, mentre l'orchestra ha funzioni evocatrici. O il successivo duetto con Faust, originariamente baritono e nella versione definitiva tenore, desunto da un'opera incompiuta di Boito, Ero e Leandro. Opera ambiziosa, che al direttore d'orchestra pone problematiche non semplici da risolvere. A cominciare dallo smisurato organico orchestrale e corale che Boito prevede già nel Prologo celeste in cui l'opposizione dei piani sonori crea un formidabile senso di spazio che erompe nell'irresistibile scherzo dei cherubini ("Siam nimbi volanti"). Per finire con il magniloquente Epilogo.
Punto debole del Mefistofele è, però, proprio la figura diabolica del protagonista che sarà il modello per quella di Jago in Otello nell'opera il cui testo Boito offrirà a Verdi. Figura ambita dai grandi bassi del Novecento il diavolo boitiano più che partecipare all'azione dell'opera, passa la maggior parte del proprio tempo a dialogare con l'Eterno e con l'Universo, ad apostrofare il pubblico, a proclamare la propria eresia. Raramente gli capita, come in Faust di Gounod, opera dalle ambizioni ben più modeste, di diventare un personaggio comunicativo. Attorno ad Alex Esposito, che sta costruendo con il Gran Teatro La Fenice un rapporto costruttivo per entrambi, la massima istituzione musicale veneziana ha costruito un nuovo allestimento di Mefistofele che ne sta confermando l’eccellenza fra le istituzioni italiane dedicate alla musica d’arte. Era un’ambizione del Sovrintendente Fortunato Ortombina ripresentare a Venezia il capolavoro boitiano e l’impresa gli è riuscita, sia pure quando è in partenza per la sovrintendenza della Scala. Tutto, o quasi tutto, ha funzionato in uno spettacolo che è consigliabile andare a vedere. A cominciare dal protagonista: Alex Esposito non ha una voce magniloquente, ma la sua figura d’artista si sta perfezionando negli anni, ed è uno dei pochi oggi in Italia a saper rappresentare un personaggio in tutte le sue sfaccettature e a recitarlo oltre che a cantarlo. Così il suo Mefistofele un po’ pantofolaio dell’avvio, che deve fare una doccia per assumere i panni diabolici che gli competono ed affrontare il Dottor Faust, è luciferino a sufficienza, e di Mefistofele fa un’entità comunicativa i cui interventi danno luce a ogni scena cui partecipa che – alla fine – nell’economia dell’opera non sono moltissime. Piero Pretti, che è Faust, gli risponde con prontezza e s’incarica di dare espressività alle arie, non di volo assoluto al modo pucciniano, ma di grande nobiltà, che competono al suo personaggio raziocinante.
Nel Sabba classico trova una partner d’eccezione nell’Elena primadonna di Maria Teresa Leva, la cui vocalità di gran pregio e un fraseggio intenso restituiscono al meglio un personaggio in sé poco interessante. Significativo è il contrasto con Maria Agresta, che tanta abbiamo appezzato in passato, e che oggi, purtroppo, sembra dilapidare un patrimonio vocale di qualità e stenta ad aderire alle richieste, non impossibili ma certo di non trascurabile difficoltà, che pone all’interprete un personaggio come Margherita. Detto quindi della compagnia, completata con decoro da Kamelia Kader (Marta nella scena del giardino e poi Pantalis nel Sabba classico) e da Enrico Casari (Wagner, sodale di Faust), va sottolineata la prova maiuscola delle compagini corali, adulta e infantile, che poi sono le vere protagoniste della serata e che sono preparate con grande acume da Alfonso Caiani (gli adulti) e da Diana D’Alessio maestra dei Piccoli Cantori Veneziani. Il tutto concertato con grande passione, diretto con magniloquenza in sintonia con il testo di partenza e a tratti troppo esibita da Nicola Luisotti, cui va però il merito di condurre in porto con onore un titolo monstre, non a caso di sempre più rara esecuzione. Poco da dire dello spettacolo: Moshe Leiser e Patrice Caurier sono colonne delle stagioni zurighesi e molto apprezzati da Cecilia Bartoli. Le loro riletture sono sempre stimolanti e mai offensive del testo di partenza. Qui hanno dato il meglio di loro, forse lusingati dall’invito veneziano. Il loro operato ha avuto le collaborazioni di Agostino Cavalca per i costumi, di Christophe Forey per il disegno luci, di Etienne Guiol per le fondamentali immagini video e di Beate Vollack per le coreografie. Un team di qualità. Alla recita di mercoledì cui abbiamo assistito, pubblico folto, un po’ intimidito dall’imponenza dell’opera, ma alla fine conquistato da un’esecuzione al calor bianco. Da vedere. 18/04/2024 di Rino Alessi Info: www.teatrolafenice.it Foto: Michele Crosera bellaunavitaalloperablogspot.com

Commenti

  1. Con la tua recensione sul Mefistofele, mi hai fatto sedere comodamente in platea della Fenice perché è un'opera che adoro.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

ADDIO A GIUSEPPE BOTTA, TENORE DAL TIMBRO INCONFONDIBILE E PRESENZA COSTANTE NEI CARTELLONI DEL TEATRO VERDI DI TRIESTE

ANDREA ZAUPA: UNA CARRIERA TRA CANTO, MEDITAZIONE E FOTOGRAFIA. INTERVISTA CON IL BARITONO VICENTINO CHE STA PER DEBUTTARE NEL PERSONAGGIO DI SCARPIA

A OTTO ANNI DALL'ULTIMA ESECUZIONE A TRIESTE E' TORNATA SUL PALCOSCENICO DEL TEATRO VERDI LA CENERENTOLA DI ROSSINI E LA BONTA' E' TORNATA A TRIONFARE