JEPHTA DI HAENDEL DA AMSTERDAM A PARIGI: SUCCESSO TRIONFALE ALL'OPERA GARNIER PER WILLIAM CHRISTIE E IAN BOSTRIDGE NELLO SPETTACOLO DI CLAUS GUTH

Iefte talvolta Jefte, o, come nell’oratorio di Georg Friedrich Haendel, Jephta, è un personaggio biblico noto per aver fatto a Dio un voto senza riserve che coinvolse la sua unica figlia. È citato nel libro dei Giudici dell'Antico Testamento. Prima di intraprendere la guerra con i pagani Ammoniti, Iefte promise a Dio : “Se darai nelle mie mani i figli d'Ammon, quando ritornerò vincitore, chiunque per primo uscirà da casa mia per venirmi incontro, sarà del Signore e lo offrirò in olocausto”. (Giudici 11,30-31) Iefte combatté e vinse. Al suo ritorno a Mizpa la prima della sua casa che gli si fece incontro, danzando con un tamburello per festeggiare il padre e la sua vittoria, fu la sua unica figlia; le Sacre Scritture non citano il suo nome.
Appena la vide, Iefte si stracciò le vesti e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi”. Essa gli disse: “Padre mio, se hai dato parola al Signore, fa di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici”. Poi disse al padre: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne”. Egli le rispose: “Va!”, e la lasciò andare per due mesi. Essa se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con voto. Essa non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele quest’usanza: ogni anno le fanciulle d'Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni. In cosa consistesse, in effetti, tale voto e cosa realmente fosse “l'olocausto” di cui riferisce il libro dei Giudici, ci sono da parte degli studiosi diverse interpretazioni. Nella Bibbia, infatti, le ragioni del voto sono misteriose giacché i sacrifici umani erano all’epoca proibiti in Israele.
Jephta, l’oratorio haendeliano in tre atti su libretto del Reverendo Thomas Morrell si scosta dal racconto biblico e dà alla figlia del protagonista un nome, Iphis, e una santificazione in vita propiziata da un angelo che interviene (e canta la sua bella aria) nel finale per sottrarla alla morte. Tenuto a battesimo al Covent Garden sotto la direzione dello stesso Haendel nel 1752 Jephta appartiene al genere dell’oratorio, un lavoro musicale destinato all’esecuzione in forma di concerto. A questo genere Haendel ha destinato gran parte della sua produzione più matura e l’opera ha dovuto attendere due secoli per la rappresentazione scenica la cui prima ebbe luogo nel 1959 a Stoccarda e, nello stesso allestimento, all’Opéra Garnier di Parigi che l’ha appena ripresentata per otto applauditissime recite in uno spettacolo coprodotto con la Nationale Opera di Amsterdam e messo in scena da Claus Guth.
Chi era rimasto disgustato da La Bohème spaziale alla Bastille, ha dovuto ricredersi sul lavoro di Guth. Con Jephta, infatti, il regista tedesco realizza uno spettacolo di grande finezza che il pubblico ha apprezzato molto. Il racconto sacro è stato in qualche modo umanizzato dando a ogni personaggio rilievo e risalto. Merito di un capillare lavoro del regista sugli attori-cantanti, ma anche delle immagini, di forte impatto visivo, che erano restituite dalle scene e dai costumi di Katrin Lea Tang, dai video di Arian Andiel con i contributi fondanti di Bernd Pukrabek per il disegno luci, Sommer Ulrickson per le coreografie e Yvonne Gebauer che, come in Puccini, firmava la drammaturgia dello spettacolo. Drammaturgia che, pur rispettando l’intervento salvifico finale, destina la giovane Iphis a una vita gloriosa e infelice, vittima dell’orgoglio paterno e lontano dall’affetto della madre Storgé e dell’amato Hamor cui era destinata in sposa e cui lascia in eredità gli sconsolati genitori. Sarebbe stato difficile radunare un cast più riuscito e affiatato di quello che abbiamo ammirato all’Opéra Garnier. Con uno Ian Bostridge vocalmente e stilisticamente impeccabile e trasfigurato nel personaggio centrale di Jephta di cui è in grado di rappresentare l’evoluzione da guerriero impetuoso all’essere indifeso del finale devastato dal peso del proprio errore.
Accanto a lui Marie-Nicole Lemieux è una Storgé di grande forza espressiva e imponenti mezzi vocali e sa essere sì una moglie devota e una madre affettuosa, ma sfodera grande grinta nella ribellione che oppone alla decisione impostale. La coppia giovane trova nella voce immacolata di soprano di Katherine Watson l’interprete ideale per la candida Iphis e nel controtenore inglese Tim Mead un Hamor intenso, partecipe e compenetrato nel suo personaggio. A un altro controtenore, Valer Sabadus, è affidato l’intervento angelico mentre Zebul, fratellastro di Jephta è, anche lui ottimo, il basso Philippe Sly. Il Coro in scena e l’Orchestra in buca provenivano dalle fila di Les Arts Florissants che, nel barocco haendeliano hanno oggi pochi rivali al mondo. Dal podio guidava il tutto con la sua grande esperienza e la ben nota competenza in materia, un veterano della riscoperta in Francia del repertorio antico, William Christie. Mai direttore è stato più meticoloso nella preparazione e abile nella direzione di un’opera cui ha dato nuova linfa e di cui ha saputo restituire ogni sottigliezza stilistica: al termine delle oltre tre ore di spettacolo il pubblico, che affollava la sala, gli ha tributato delle autentiche ovazioni, come a tutti gli altri del resto. Foto: Opéra National de Paris Info: www.operadeparis.fr di Rino Alessi 31/01/2018 bellaunavitaallopera.blogspot.com

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