Riflessione di Giovanni Boer, Parroco di Santa Eufemia e Santa Tecla a Grignano - II Domenica di Quaresima - Anno B --- Mc 9,2-10

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. Gesù chiede di fare qualcosa: gli apostoli obbediscono, anche se non capiscono; e devono aspettare. Aspettare non sanno quanto, anche perché non sanno che cosa voglia dire che il Figlio dell’uomo deve risorgere dai morti. E ciò che hanno veduto e udito sulla cima del monte Tabor è già da solo sufficiente per lasciarli senza parole e confusi, seppur contenti. Sono gli stessi tre apostoli che vedranno Gesù nell’orto degli ulivi trasfigurato in una maniera ancora diversa, da renderli atterriti. “Ciò che avete visto e udito non dovete dirlo fino al giorno prestabilito”. Sì, ma quale sarà questo giorno?
Soffermiamoci sull’obbedienza degli Apostoli, nonostante il desiderio di capire e il non poter far domande ulteriori. Tenendo conto anche che probabilmente gli altri Apostoli, che non erano saliti, avranno fatto qualche domanda sul perché di quella notte sul monte Tabor da soli. Obbediscono, eppure hanno ancora ben nella mente che hanno addirittura visto Mosè ed Elia, e che hanno sentito la voce di Dio chiamare Gesù “il Figlio mio, l’Amato”. Come hanno potuto vivere quel tempo rimanente fino alla passione e risurrezione? Tra l’altro: ... avranno ricordato nel momento della Sua passione e della Sua sepoltura che avevano visto ben altro sul Tabor? Paragoniamoci un po’ con loro, soltanto un po’, perché nessuno di noi è stato con Gesù sul Tabor e Lo ha visto trasfigurato e ha sentito addirittura la voce del Padre. Comunque ... Anche noi abbiamo qualche certezza su Dio, su Gesù, eppure aspettiamo. Aspettiamo. Un’attesa lunga, che passa addirittura attraverso la nostra morte. Noi stiamo aspettando la venuta di Gesù e la risurrezione dai morti. Questi tre Apostoli hanno obbedito, hanno dovuto aspettare (non sapevano quanto tempo), e intanto si facevano domande anche se,
con tutte le sorprese che Gesù inventava ogni giorno, avranno avuto poco tempo per tenere in ordine nella loro mente tutto quello che capitava ... Le loro giornate erano “un attimino” piene! Sul Tabor, comunque, hanno visto l’inimmaginabile; hanno udito l’inudibile; attoniti; hanno atteso. Noi. Siamo un po’ sfortunati, perché non siamo stati prescelti per l’esperienza del Tabor, tuttavia, se diamo credito alle parole di Gesù e a quelle degli Apostoli dopo la Pentecoste, la Grazia di Gesù - una volta che ci sia entrata dentro e che ce la conserviamo - ci dà una certezza profonda che equivale di per sé alla luce e alle parole del Tabor. Questo sarebbe il frutto profondo della Grazia: nonostante le mille difficoltà. E il frutto anche della preghiera. Pensiamo un po’: anche quegli stessi tre apostoli ... a parte Giovanni che arrivò fin sotto la croce di Gesù ... gli altri due, assieme a tutti gli altri, lì per lì tradirono Gesù nel momento della cattura e lo lasciarono solo nel momento della morte.
Gesù mette in conto che questo può accadere. Vi ricordate? “Pietro io ho pregato per Te, e quando ti sarai ripreso conferma i tuoi fratelli!”. Noi dunque, pure noi senza Tabor, possiamo avere momenti difficili, di cedimento. Ma poi Gesù ci attende. Proprio perché sa che noi ancora aspettiamo di vedere finalmente, e di sentire finalmente, e di godere il Paradiso ... finalmente. A me e a voi chiedo, confrontandomi con gli Apostoli nel loro tempo di attesa: questo tempo di attesa come lo passiamo? Quali sono le nostre abituali domande sulla vita, sulla morte, sulla risurrezione dai morti? Come impegniamo la nostra mente e le attività delle nostre giornate attendendo che Gesù finalmente venga a prenderci? Pace e Bene Aggiungo per voi. Cosa vuol dire risorgere dai morti ? Credo sia importante porsi questa domanda. Perché, “sotto mentite spoglie”, “in contumacia”, è la domanda che nasconde il cardine di tutta la fede cristiana. Di tutta la fede in Gesù Cristo. E per fede non intendo in prima battuta quello che si intende normalmente, e cioè credere a quello che non si vede sperando che sia vero. Intendo il senso più profondo della fede, del credere. Cioè quella roccia (la fede) sulla quale possiamo porre (credere) tutto il nostro credito, tutta la nostra sicurezza. Si parlava una volta del depositum fidei, cioè di ciò che abbiamo depositato come tesoro, come ricchezza, come sicurezza per la nostra vita.
E intendo il credere come atto di sicurezza amorosa per cui ci ancoriamo a ciò che è certo, sicuro, inequivocabile. Concreto. Assolutamente concreto. E quindi anche d’inestimabile valore. Per questo tipo di credere possiamo anche perdere la vita fisica perché sappiamo che ci viene donata quella eterna glorificata. Soltanto dopo che la fede e il credere li abbiamo re-impostati così – che tra l’altro è il vero significato originario delle due parole (significato che si ricava oltre che da una accurata analisi semantica, anche semplicemente dall’uso che di queste parole ne fa Gesù, San Paolo e compagnia bella) – ... soltanto dopo che abbiamo recuperato in questo senso la fede e il credere, possiamo anche dire con una luce nuova e più vera che credere è anche, in seconda battuta, affermare ciò che non si vede ma che ci viene assicurato da Colui che è il nostro deposito, la nostra roccia, la nostra forza: Dio Santa Trinità. Dunque, cosa vuol dire risorgere dai morti? Sì, questa è la domanda la cui risposta fa la differenza della fede cristiana (fede nel senso che ho detto prima) rispetto a tutte le altre credenze in Dio; credenze che possiamo anche chiamare religioni, se per ‘religione’ intendiamo il modo specifico con cui un uomo si rapporta con la realtà suprema dalla quale in qualche maniera dipende tutto il mondo. Oggi più che mai – ne sono convinto – dobbiamo rispondere a questa domanda, e dobbiamo rispondervi con molta sincerità. Con titubanza, se abbiamo dubbi; con superficialità, se vogliamo arginare il problema della morte e siamo soprattutto concentrati sulle cose della nostra vita; con serenità solida, se siamo permeati della fiducia in Dio Trinità che salva dai peccati e dona la Sua stessa vita eterna; con un grande punto di domanda perché capiamo che la morte mette la parola fine ma vorremo che ci fosse qualcosa dopo, mentre non sappiamo affermare niente.
La risposta a questa domanda, infatti, imposta tutta la cura che abbiamo per l’uomo, per l’uomo sano e per l’uomo malato, per il bambino che può essere concepito, per colui che è un peso perché non può più essere curato o che non ritiene più di valere alcunché. Per la donna che un uomo ama e per l’uomo che una donna ama. Dalla risposta a questa domanda dipende anche come ‘impostiamo’ l’amore, e che cosa facciamo dell’amore. I discepoli capirono cosa voleva dire risorgere dai morti in tutte le sue implicazioni quando videro Gesù risorto ascendere al cielo, cioè entrare nella dimensione della gloria del Padre, e quando ricevettero lo Spirito Santo in maniera nuova e intima. È solo per questo che si impegnarono a predicare la fede cristiana, a trasmettere questa roccia a noi. Perché compresero che cosa significa risorgere dai morti. Faccenda, tra l’altro, contro la quale satana ha lavorato fin da quando è riuscito a far entrare la morte nel mondo. Dunque, mie care e miei cari, cosa pensiamo che sia risorgere dai morti? E come ci rapportiamo con i nostri morti, con tutti i morti ... Con i moribondi? Detto in altre parole ... Se dovessimo dire al primo straniero non credente che capitasse per strada e ci chiedesse “ma tu sei cristiano?” – “Sì” – “Io no. Mi spieghi in due parole qual è la differenza tra me e te? E mi spieghi, sempre in due parole, perché ho letto che tu desideri che chi non crede divenga credente come te?”. Che gli diremo?
Lo porteremo magari in cimitero e gli parleremo in un modo un po’ particolare di quelli che “non sono più”? Oppure a una messa (sperando che sia celebrata con calma e attenzione) e dopo che è finita ci metteremo a spiegargli la consacrazione, e la comunione? ... Perché a un certo punto dovremmo anche parlargli della trasfigurazione, che si può capire solo dopo la risurrezione dai morti ... Trasfigurazione. Mie care e miei cari, qui non posso soffermarmi in modo esaustivo sul verbo greco usato da Marco e sulla parola greca alla quale il verbo è collegato. Il verbo, traslitterato, è metamorfòthe, la parola è morfé. Corrisponde al latino e all’italiano forma, cambiar forma. Non mi posso soffermare su questo, perché la parola ‘forma/morfé’ ha un uso ‘semplice’, che è quello base, e uno più ‘complicato’, filosofico. Vuol dire l’aspetto con cui qualcosa si manifesta. E l’aspetto di per sé fa parte strutturale di questo qualcosa o qualcuno. Io ho una formai umana, e di maschio.
Ma poi, nell’uso diffuso può voler indicare quella che i filosofi una volta definivano l’essenza di una cosa, la natura di una cosa (quindi una faccenda di assoluta importanza). E di per sé l’aspetto esterno fa capire la natura profonda di una cosa. Due esempi. Il primo: la mia forma esteriore umana maschile fa capire senza ombra di dubbio che la mia natura, la mia essenza è umana. E la mia forma esterna non è un imbroglio: sono veramente uomo nel più profondo; magari sarò poco simpatico, o brutto o cattivo, ma uomo comunque sono uomo: dotato di intelligenza, volontà, memoria, sessualità particolare specifica, cioè sono maschio. E mi esprimo con la parola. Mentre, se un angelo mi appare, poiché l’angelo non ha materia non ha nemmeno una forma esteriore che ne indichi inequivocabilmente ai miei occhi la sua natura.
Allora, siccome io posso solo conoscere attraverso i sensi corporali, l’angelo deve “imbrogliarmi” un po’ e assumere una forma umana, o simile per parlarmi e comunicare con me (vi ricordate il modo con cui li disegniamo?) Ma quella forma lì è un po’ un imbroglio, un imbroglio buono, ma non corrisponde alla sua natura, alla sua essenza, a chi lui veramente è. Secondo esempio. Se io mi arrabbio, e la mia ira si trasfonde all’esterno, cambio certamente aspetto esteriore: sono sempre io, ma diviene chiaro a tutti che dal di dentro viene fuori qualcosa, per cui in quel momento sono in preda all’ira. Il mutamento dell’aspetto esteriore dice qualcosa di chiaro e veritiero sui miei sentimenti intimi, su chi sono io veramente in quel momento lì. Così se sorrido beato: vuol dire che dentro di me io sto godendo.
Fuori dagli esempi. Gesù incarnandosi ha assunto una forma umana, ma quella forma lì è vera, non è un “imbroglio a fin di bene” (sapete che nei primi secoli del cristianesimo c’è chi ha dubitato che Gesù fosse veramente uomo e alcuni pensavano che la sua umanità fosse solo apparente? È stata una faccenda seria per un bel po’ di tempo). Dunque, Gesù che è al tempo stesso vero uomo e Dio, ha una forma umana ben conosciuta dai suoi, da tutti quelli che lo frequentavano. Un bravo pittore avrebbe potuto fare un ottimo ritratto. MA sul monte cambia questo Suo aspetto, lo cambia come dall’interno, nel senso che non viene dall’esterno una luce particolare che Gli fa cambiare aspetto, ma accade qualcosa per cui Lui si tras-forma dall’interno. Diventa risplendente dall’interno. Però rimane chiaramente uomo, quello di prima ... ma comunque differente. I tre apostoli intuiscono che si trovano come in una dimensione nuova, assolutamente nuova, perché vedono il loro Gesù parlare tranquillamente con due famosissimi personaggi dell’Antico Testamento, che però dovrebbero essere “ben” morti, eppure sono – non sembrano: sono! – ben vivi. Intuiscono che l’aspetto che loro conoscevano bene di Gesù è vero, ma era come ... ‘superficiale’, e che questo aspetto ‘nuovo’ sembra essere ‘più vero’ dell’altro.
E che questo nuovo aspetto è come proprio quello più giusto lo intuiscono ancor di più sentendo la voce di Dio Padre che “definisce” Gesù. Questa esperienza rimase indelebile nella memoria. La ricorderà san Pietro nella sua lettera (2Pt 1,16-18). Se la sono forse un attimo dimenticata nei giorni della Sua passione e morte; poi l’hanno capita sempre meglio dopo la risurrezione dai morti. E hanno compreso che l’aspetto abituale di Gesù, quello quotidiano non era falso, ma era come ...superficiale, mostrava solo che Gesù era vero uomo. Mentre quello del Tabor, mostrava che era uomo vero ma, accidenti che uomo! E che era Dio. Anzi, l’esperienza del Tabor mostrava che era quell’uomo ‘fuori paragone’, ‘fuori concorso’ perché era Dio. Ma, ancor di più, l’esperienza del Tabor, capita dopo la Risurrezione e l’Ascensione mostrava che loro, e tutti quelli che avrebbero ascoltato Gesù sarebbero diventati “simili a Lui quando, dopo la propria morte, dopo la risurrezione dai morti, L’avrebbero visto così come Lui è” (ho parafrasato parole di San Giovanni, nella sua Prima Lettera). Vi benedico.

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