LUCREZIA BORGIA AL TEATRO VERDI DI TRIESTE: L'AVVELENATRICE E' UNA MADRE DOLOROSA

E’ dall’ormai lontano 1871 che Lucrezia Borgia, uno dei gioielli della Donizetti renaissance del secolo scorso, mancava dalle scene del Teatro Verdi di Trieste dove fu rappresentata con una certa frequenza nel corso dell’Ottocento. Alla prima milanese del 1833 Gaetano Donizetti previde e ottenne, non senza qualche difficoltà, una nuova disposizione dell’orchestra, quella cui si ricorre ancor oggi, con gli archi disposti a semicerchio davanti al podio. E fu una novità giacché la prassi prevedeva in precedenza che gli archi fossero situati da un lato, e la restante parte dell’orchestra dall’altro. Opera musicalmente innovativa, insomma. Il libretto di Felice Romani si basa su un dramma di Victor Hugo, pubblicato nello stesso 1833, in cui sono elaborati con una certa libertà diversi motivi delle vicende - storiche e leggendarie - attorno alla figura affascinate di Lucrezia Borgia e al suo ambiente familiare. Hugo non apprezzò l’adattamento operistico, tanto che nel 1845, per una serie di rappresentazioni di Lucrezia Borgia a Parigi, proibì che ne fosse usato il titolo: il libretto dovette essere rimaneggiato e l’opera andò in scena con un nuovo titolo: La rinnegata. Non fu questa l’unica metamorfosi di Lucrezia Borgia: l’opera ebbe notevoli difficoltà con la censura dell’epoca, cambiò spesso titolo e ambientazione e fu presentata nel corso degli anni come Alfonso, duca di Ferrara, Eustorgia da Romano, Giovanna I di Napoli, Elisa da Fosco, Nizza de Grenade e Dalinda.
Motivo di tante variazioni era il soggetto, per l’epoca piuttosto audace. Anche la parte musicale fu spesso rimaneggiata, tra la prima nel 1833 e il 1840 circa: ne esistono due finali alternativi, senza che si possa dire che uno dei due abbia soppiantato l’altro nella prassi esecutiva. Una delle versioni dell’opera fu tra l’altro rappresentata per la prima volta proprio a Trieste, all’allora Teatro Grande, il 2 ottobre 1838. Il nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste è realizzato in coproduzione con la Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo che ne ha curate una nuova edizione critica e la Fondazione Teatri di Piacenza dove è già stata accolta con successo, oltre che con la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e la Fondazione Ravenna Manifestazioni dove sarà ripresa prossimamente. Lucrezia, nello spettacolo di Andrea Bernard che ne firma la regia con la collaborazione di Alberto Beltrame per le scene, i costumi di Elena Beccaro, le coreografie e i movimenti scenici di Marta Negrini e le luci di Marco Alba, è prima di tutto una donna e una madre, staccata dal mito storico e romanzato di cinica avvelenatrice. Il lato umano di Lucrezia è l’aspetto più potente della vicenda ed è quello che permette alla drammaturgia di svilupparsi in una sequenza di scene paragonabili a un thriller cinematografico pieno di tensione e colpi di scena. Lo spettacolo, a suo modo molto coinvolgente, ne restituisce la potenza raggruppando in due parti le tre del testo originario, e trasforma la vicenda incestuosa in una storia universale paragonabile ai miti greci con i loro amori, incesti, vendette e tradimenti. Se la prima parte ci è sembrata sovraccarica di simboli e presenze a volte incongrue, la seconda si segnala per pulizia e abilità nella gestione del palcoscenico.
Così la Lucrezia Borgia si presenta come una tigre ferita e Carmela Remigio ne dà un’interpretazione di grande intensità espressiva coniugando belcanto e forza della recitazione che crescono nella serata. Il rapporto che si crea con il Gennaro del tenore rumeno Stefan Pop, voce di bel timbro e facile nello sviluppo all’acuto, è esemplare e i due artisti, molto affiatati fra loro, riescono davvero a metterne in evidenza il dramma con naturalezza e senza artifici inutili. Meno interessante ci è sembrato il Don Alfonso d’Este di Dongho Kim, che pure è elemento da tenere d’occhio, mentre l’aspetto cortigiano della storia è dominato da una Cecilia Molinari che offre al personaggio en travesti di Maffio Orsini, grazia e bella linea vocale, non senza trascurare l’aspetto fondante dell’amicizia che lo lega al protagonista maschile.
Accanto a loro non demeritano, anzi si disimpegnano tutti con molto onore, Motoharu Takei (Jeppo Liverotto) e Rustem Eminov (Don Apostolo Gazella), Dario Giorgelè (Ascanio Petrucci) e Dax Velenich (Oloferno Vitellozzo), Giuliano Pelizon (Gubetta) e Andrea Schifaudo (Rustighello), Giovanni Palumbo (Astolfo) e Roberto Miani (Un coppiere). Alla testa dell’Orchestra stabile e del Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi preparato da Francesca Tosi, è Roberto Gianola, uno dei più giovani e interessanti direttori della nuova generazione, che offre a questo Donizetti dinamismo e forza espressiva dando all’insieme il giusto impatto fonico. Alla prima il successo è stato vivo per tutti, con qualche isolato dissenso per la regia. 17 gennaio. di Rino Alessi. Foto di Fabio Parenzan. bellaunavitaallopera.blogspot.com

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