RACCONTO AI TEMPI DEL COLERAVIRUS: LA TRISTE STORIA DI UN’INFERMIERA

Essere figli di genitori separati è oggi un fatto che non desta sensazione, è quasi una regola, ma quando mio padre se ne andò di casa il suo comportamento era un’eccezione nelle famiglie italiane. La nostra, poi, era una famiglia sotto le luci dei riflettori. Mio padre era l’editore e Direttore del maggiore quotidiano della città e aveva una posizione, anche politica, nella Trieste appena restituita per la seconda volta all’Italia, molto delicata. Erano gli anni della guerra fredda e Trieste era l’ultimo lembo di mondo occidentale al confine con l’Est. Fatto sta, senza troppo addentrarmi in indagini geopolitiche di cui non sarei capace, che i miei genitori avevano negli anni a cavallo tra i cinquanta e i sessanta del secolo scorso, una vita mondana molto sostenuta. La Villa di vicolo Scaglioni che il babbo aveva preso in affitto, Villa Carla di cui era proprietaria la signora Vela Pulitzer che era stata allieva di Joyce, era aperta a feste e ricevimenti con una certa frequenza. Trieste, all’epoca, era sede di consolati e i miei genitori frequentavano la buona borghesia cittadina che aveva, oggi non più, una vivace attività imprenditoriale e commerciale. Invitati dappertutto il babbo e la mamma restituivano gli inviti. La mamma, diceva il babbo, era una perfetta padrona di casa. Ricordo che con i miei fratelli seguivamo dal terrazzo di Villa Carla gli arrivi e le partenze di ospiti e invitati.
Tra i rampolli di quella cerchia i miei genitori trovavano gli amichetti che avremmo dovuto frequentare. Ognuno aveva i suoi. Desirée era molto affiatata con Michela che oggi fa l’avvocato e di cui ho già accennato, Luciana era un po’ sulla scia della maggiore, Giulio era troppo piccolo e stava con la Fräulein, io a un certo punto mi ritrovai a frequentare Giovanni e Giacomo. Loro venivano a giocare da noi e noi andavamo da loro. Mio padre, che in genere non si occupava molto dei suoi figli, era molto assiduo quando io ero invitato da Giacomo. Ogni scusa era buona per apparire, scattare fotografie, fare una delle sue tipiche battute che lo rendevano simpatico a tutti, e scomparire. Alla festa per il mio compleanno io tenevo, prima di tutto, che fossero invitati questi miei due amici del cuore. A incaricarsi di fare gli inviti era la mamma che si attaccava al telefono e diramava gli inviti alle altre mamme. Una volta, non mi ricordo più che anno fosse, le chiesi di telefonare ai miei amici per invitarli al mio compleanno. Quando fu il turno di Giacomo, mi disse, questa telefonata falla tu, io mi sono stancata. Telefonai. Rispose la mamma di Giacomo che faceva l’infermiera. Dissi che avrei avuto piacere di avere suo figlio alla festa per il mio compleanno. Rispose imbarazzata che non era sicura che quel pomeriggio sarebbe stato libero. Strano, mi dissi, ma la delusione fu cocente, tanto che da quella volta sospesi le feste per il mio compleanno. Mio padre, nel frattempo, era uscito da casa.
Ai figli i miei genitori non spiegarono mai il perché mio padre non abitasse più con noi. La mamma pensò, giustamente, che non era compito suo. Il babbo non ne ebbe mai il coraggio e lo fece solo con me perché ero il primo maschio. Desirée e Luciana seppero che il babbo e la mamma si erano separati da Mad, una signora di origine francese che viveva insegnando la propria lingua alle ragazze della Trieste bene. Luciana, quando lo seppe, si mise a piangere e ne fece una tragedia, aveva il temperamento della tragedienne del resto. Subito venne a raccontarlo a me. Non ricordo quale fu la mia reazione né se fosse un’informazione che mi colse di sorpresa. La signora francese, che viveva di pettegolezzi e per i pettegolezzi, finse di essere dispiaciuta o forse lo fu davvero. Certo è che, all’epoca, un uomo che esce dal domicilio coniugale faceva notizia. Mia madre si trovò nella condizione di donna sola e fu subito esclusa dagli inviti ma andò avanti senza lamentarsi. Mio padre non riusciva a capire il perché avesse rinunciato alla mondanità. Era davvero meschino e superficiale nelle sue analisi quando si usciva dalle sue competenze. Certo è che da quegli inviti fu subito escluso anche lui. Né fece coppia pubblicamente con l’infermiera che si era scelto.
Del resto la signora era nota nella Trieste bene come donna insoddisfatta del proprio matrimonio e della propria condizione. Antonio Malipiero, che del babbo era stato amico d’infanzia e compagno di prigionia, e che morto il babbo frequentai fino all’ultimo, mi raccontava che prima di provarci con mio padre, l’infermiera l’aveva fatto con lui. Fu più saggio e lasciò perdere. Capì, mi disse, che una donna del genere non te la levavi più di torno. E con il babbo così fu. Quando chiesi a mio padre perché avesse voluto sfasciare una famiglia composita come la nostra, fu stupito. Peccò di ottimismo perché partì dal presupposto che, venuto il momento di essere giudicato, i suoi figli sarebbero partiti dal principio “mio padre, nonostante tutto”. Ma, lo ammise lui stesso, erano idee antiche. E antico era anche il pudore che lo tratteneva dal parlarne con suo figlio. “Io non so perché un matrimonio finisce, soprattutto quando non hai niente da addebitare all’altra parte, oppure se hai soltanto delle sciocchezze da addebitare. Però so che un bel giorno finisce e in quel momento se sei un uomo e hai il sangue caldo nelle vene, diventi come una specie di foglia morta rimasta attaccata al ramo solo per caso e pronta a essere strappata dal primo soffio del vento.”. Tutto quello che venne dopo l’infatuazione per l’infermiera, fu, mi scrisse il babbo “una cosa triste, difficile, piena di lacrime e di dolori, non solo per me ma per tutti. Io credo che per un carattere come il mio non poteva esserci punizione più grave.”.
Innamorato di se stesso e del proprio lavoro, mio padre diede poco spazio, lui sentimentale, ai suoi sentimenti che pure erano sinceri anche se labili. Il narcisismo, però, quando è esasperato, si ritorce contro se stesso e porta al fallimento. “Fallimento nonostante tutto?” mi scrisse ancora. “E’ vero, fallimento. Ma come posso pagare questo debito più di quanto non lo stia pagando con la generale scontentezza di tutti quanti mi stanno attorno e dunque con la mia solitudine totale?”. In tutta onestà non credo di aver mai giudicato mio padre né di averlo mai lasciato solo. Non l’ho capito e non ho mai voluto frequentare l’infermiera né le altre sue fidanzate, esclusa la petulante segretaria della “Dante Alighieri” di Losanna. Da persona pragmatica sono partito dai fatti. Mia madre non mi ha mai parlato male di mio padre, tutt’altro, né l’ha fatto con i miei fratelli. Mi ha sempre esortato a volergli bene e a stargli vicino. Mio padre al contrario ha tentato di ingraziarsi i propri figli raccontando frottole come quella che il suo matrimonio era stato combinato, neanche la sua fosse una famiglia di sangue reale, e che fra lui e la mamma non c’era mai stata vera passione. Già, risposi, e senza passione come li fai quattro figli? Quando Giulio morì l’infermiera tentò l’ennesimo suicidio, quando seppe che il babbo e la mamma sarebbero andati a pregare sulla tomba del figlio a un mese dalla scomparsa. Fu un gesto orribile e lo dissi al babbo che seppe soltanto arrabbiarsi con l’amica che me lo aveva raccontato.
Mi aveva voluto giornalista e feci il giornalista in cerca, come un segugio, di notizie. Morto il babbo, l’infermiera me la tolsi di torno con il sistema più semplice di questo mondo, negandole ogni sostegno economico. Non fu facile perché era molto insistente e interessata. Feci però mia la lezione appresa a “Repubblica” da Orazio Gavioli che aveva studiato dai gesuiti. Finsi di esserle amico e le dissi di venirmi a trovare in libreria. Passava in pratica ogni giorno sempre lamentando le sue ristrettezze economiche. Se passa anche oggi, impugno un bastone e glielo do in testa dissi un giorno alla mamma. Non ti sporcare le mani fu la sua risposta che mi fece ridere fino alle lacrime. Non me le sono sporcate. Quando con mia madre accompagnammo il cadavere di mio padre alla chiesa di Barcola per la Messa in suffragio che vi sarebbe stata celebrata non sapevamo che l’infermiera non si era fermata nemmeno davanti alla morte. Manipolò le mie sorelle e lo fece sottoporre ad autopsia perché non era convinta, non si capisce a che titolo, del lavoro del suo medico curante. Mio zio Federico che con la moglie Giulia era costretto a frequentare il babbo in coppia con l’infermiera mi disse di come questa lo trattasse di fronte ai suoi cari come un bambino dell’asilo, sventolando i risultati delle analisi che aveva fatto controllare da un medico amico e di quanto mio padre fosse infelice con quella donna. Da Giulia e Federico l’infermiera aveva preteso di seguire la bara di mio padre da Barcola al cimitero di Cervia. A farla desistere fu la mia mamma. Quando la vide nella chiesa di Barcola parata a lutto come fosse un’inconsolabile vedova, le disse senza esitazioni: “Finalmente è solo mio!” e l’infermiera restò a casa. 18/03 di Rino Alessi bellaunavitaallopera.blogspot.com

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